Nel sistema giuridico attuale, l’attività interpretativa dei contratti è legalmente guidata, nel senso che essa risulta conforme a diritto non già quando ricostruisce con precisione la volontà delle parti, ma quando si adegui alle regole legali, le quali, in generale, non sono norme integrative, dispositive o suppletive del contenuto del contratto, ma, piuttosto, costituiscono lo strumento di ricostruzione della comune volontà delle parti al momento della stipulazione del contratto e, perciò, della sostanza dell’accordo. Pertanto, la volontà emergente dal consenso delle parti nel suddetto momento non può essere integrata con elementi ad essa estranei, e ciò anche quando sia invocata la buona fede come fattore di interpretazione del contratto, la quale deve intendersi come fattore di integrazione del contratto non già sul piano dell’interpretazione di questo, ma su quello – diverso – della determinazione delle rispettive obbligazioni, come stabilito dall’art. 1375 c.c. (Omissis). Cass. civ. sez. III 12 aprile 2006, n. 8619
Il criterio della buona fede nella interpretazione dei contratti, applicabile anche agli atti prenegoziali, deve ritenersi funzionale ad escludere il ricorso a significati unilaterali o contrastanti con un criterio di affidamento dell’uomo medio, ma non consente di assegnare all’atto una portata diversa da quella che emerge dal suo contenuto obiettivo, corrispondente alla convinzione soggettiva di una singola persona. Esso rappresenta, difatti, il punto di sutura tra la ricerca della reale volontà delle parti (costituente il primo momento del processo interpretativo, in base alla comune intenzione ed al senso letterale delle parole) ed il persistere di un dubbio sul preciso contenuto della volontà contrattuale (in base ad un criterio obiettivo, fondato su di un canone di reciproca lealtà nella condotta tra le parti, ed inteso alla tutela dell’affidamento che ciascuna parte deve porre nel significato della dichiarazione dell’altra), e rappresenta, pertanto, un mezzo, alfine, soltanto sussidiario dell’interpretazione, non invocabile quando il giudice di merito abbia, attraverso l’esame degli elementi di prova raccolti, già aliunde accertato l’effettiva volontà delle parti. Cass. civ. sez. III 18 maggio 2001, n. 6819
Nel caso in cui un contratto (nella specie, di assicurazione contro i danni) contenga due clausole che disciplinano in modo diverso, e ciascuno esaustivo, lo stesso fatto, correttamente il giudice del merito attribuisce prevalenza a quella che ritiene più congrua alla soddisfazione degli interessi di entrambe le parti, atteso che, così operando, egli osserva sia il principio di conservazione del contratto (art. 1367 c.c.) – perché se le parti hanno attribuito ad un fatto una tale rilevanza da farne oggetto di due diverse clausole, entrambe esaustive, deve ritenersi che sia conforme alla volontà delle parti che almeno una clausola rimanga efficace – sia il principio di buona fede (art. 1366 c.c.), che nella scelta impone di preferire la clausola che soddisfi (meglio) l’interesse di entrambe le parti. Cass. civ. sez. I 27 marzo 1996, n. 2773
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