Art. 1362 – Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262 - Aggiornato alla legge 26 novembre 2021, n. 206)

Intenzione dei contraenti

Articolo 1362 - codice civile

Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole (1365; 12 prel.).
Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto (1326, 1366, 1371).

Articolo 1362 - Codice Civile

Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole (1365; 12 prel.).
Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto (1326, 1366, 1371).

Massime

In tema di interpretazione del contratto, in base ai criteri legali di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., avuto riguardo in primo luogo allo scopo pratico che le parti hanno inteso realizzare con la stipulazione del contratto, le clausole vanno interpretate le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto, nonché dal comportamento tenuto dalle parti anche dopo la conclusione dello stesso. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata laddove, interpretando una clausola del contratto di appalto secondo cui i pagamenti andavano effettuati previo benestare del direttore dei lavori, ha ritenuto che tale potere spettasse alla committenza malgrado da altre clausole e dal comportamento delle parti si desumesse che tale potere competeva al direttore). Cass. civ., sez. , III- 30 agosto 2019, n. 21840

L’art. 1362 c.c., allorché nel comma 1 prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile. Cass. civ., sez. , II- 22 agosto 2019, n. 21576

Nell’interpretazione del contratto, che è attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti; pertanto, sebbene la ricostruzione della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell’interpretazione letterale delle clausole, assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti. * Cass. civ. sez. III, 26 luglio 2019 n. 20294

In tema di interpretazione del contratto, l’elemento letterale, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, di quello funzionale, che attribuisce rilievo alla “ragione pratica” del contratto, in conformità agli interessi che le parti hanno inteso tutelare mediante la stipulazione negoziale. Cass. civ., sez. , III 22 novembre 2016, n. 23701

A norma dell’art. 1362 c.c., il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un’espressione “prima facie” chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le parti restanti del contratto e con la condotta delle stesse. Cass. civ., sez. , III 10 maggio 2016, n. 9380

Nell’interpretazione del contratto l’art. 1362 c.c. impone di compiere l’esegesi del testo, ricostruire in base ad essa l’intenzione degli stipulanti e verificare se l’ipotesi di comune intenzione ricostruita sia coerente con le restanti parti del contratto e con la condotta, anche esecutiva, dei contraenti, sicché non si esclude che debba essere indagato il significato proprio delle parole, imponendosi esclusivamente di negare valore al brocardo “in claris non fit interpretatio”. Cass. civ., sez. , lav. 1 dicembre 2015, n. 24421

A norma dell’art. 1362 c.c., l’interpretazione del contratto richiede, ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, che il giudice, anche quando il significato letterale del contratto sia apparentemente chiaro, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, verifichi se quest’ultimo sia coerente con la causa del contratto, con le dichiarate intenzioni delle parti e con la condotta delle stesse. Cass. civ., sez. , III 9 dicembre 2014, n. 25840

In tema di interpretazione del contratto, il principio “in claris non fit interpretatio” rende superfluo qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale quando la comune intenzione dei contraenti sia chiara, non essendo a tal fine però sufficiente la chiarezza lessicale in sé e per sé considerata, sicché detto principio non trova applicazione nel caso in cui il testo negoziale sia chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà dei contraenti. Cass. civ., sez. , III 9 dicembre 2014, n. 25840

In tema di interpretazione del contratto, il principio “in claris non fit interpretatio” presuppone che la formulazione testuale sia talmente chiara ed univoca da precludere la ricerca di una volontà diversa. A tal fine il giudice ha il potere-dovere di stabilire se la comune intenzione delle parti risulti in modo certo ed immediato dalla dizione letterale del contratto, attraverso una valutazione di merito che consideri il grado di chiarezza della clausola contrattuale mediante l’impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, ivi compreso il comportamento complessivo delle parti, in quanto la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo) costituiscono strumenti interpretativi legati da un rapporto di implicazione necessario al relativo procedimento ermeneutico. (Omissis). Cass. civ., sez. , lav. 3 giugno 2014, n. 12360

In tema di interpretazione del contratto, il giudice di merito, nel rispetto degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., per individuare quale sia stata la comune intenzione delle parti, deve preliminarmente procedere all’interpretazione letterale dell’atto negoziale e, cioè, delle singole clausole significative, nonché delle une per mezzo delle altre,dando contezza in motivazione del risultato di tale indagine. Solo qualora dimostri, con argomentazioni convincenti, l’impossibilità (e non la mera difficoltà) di conoscere la comune intenzione delle parti attraverso l’interpretazione letterale, potrà utilizzare i criteri sussidiari di interpretazione, in particolare il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto ed il principio di conservazione. (Omissis). Cass. civ., sez. , V 23 aprile 2010 n. 9786 

In tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto; il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per «senso letterale delle parole» tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato. Cass. civ. sez. I 22 febbraio 2007, n. 4176

Nell’interpretazione del contratto, operazione istituzionalmente riservata al giudice di merito, l’interpretazione comune che di esso danno le parti, pur non vincolando il giudice, in quanto costituente solo un canone ermeneutico, deve essere tenuta in particolare considerazione. Inoltre, poiché il giudice è vincolato alla domanda e ai fatti confessati dalle parti e poiché l’individuazione della volontà contrattuale ha ad oggetto una realtà fenomenica ed obbiettiva e costituisce un accertamento fattuale del giudice di merito, questi non può adottare un’interpretazione della volontà contrattuale contraria a quanto espressamente e concordemente affermato dalle parti in giudizio e posto pacificamente a base delle loro pretese. Cass. civ. sez. III 18 marzo 2005, n. 5954

L’espressione «senso letterale delle parole» deve intendersi riferita all’intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte e in ogni parola che la compone, e non già limitata ad una parte soltanto o addirittura a singole parole di essa, per cui il giudice, nell’interpretazione di una clausola negoziale, non può arrestarsi ad una considerazione atomistica, utilizzando esclusivamente singole proposizioni o frasi di essa, ma deve verificare il contenuto complessivo del documento (nella specie, atto amministrativo); pertanto, non deroga il giudice all’obbligo di rispettare il criterio primario di cui al primo comma dell’art. 1362 c.c., se ritiene che all’interno di una delibera di approvazione di progetto di opera pubblica, accanto all’esplicita fissazione dei termini per la procedura espropriativa, sia presente la previsione dei diversi termini per il compimento dei lavori, anche se distaccata dalla prima, in quanto dislocata in altra parte dell’atto, in cui si dispone l’inserimento, nel bando di concorso per l’affidamento dei lavori in appalto, della clausola su una determinata durata dei lavori, decorrente dalla consegna all’appaltatore. Cass. civ. sez. I 24 dicembre 2004, n. 23978

Nell’interpretazione del contratto, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, in quanto il richiamo contenuto nell’art. 1362 c.c. alla comune volontà delle parti impone, per individuarla, di estendere l’indagine anche all’elemento logico ed anche, qualora una complessa operazione negoziale sia stata posta in essere con la redazione di più contratti, facendo ricorso all’esame dei contratti presupposti, anche se essi siano stati conclusi da parti diverse. Cass. civ. sez. II 16 settembre 2004, n. 18670

Nell’interpretazione delle clausole contrattuali il giudice di merito deve arrestarsi al significato letterale delle parole, e non può far ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici quando dalle espressioni usate dalla parti emerga in modo immediato la volontà comune delle medesime, in quanto il ricorso agli altri criteri interpretativi, al di fuori dalle ipotesi di ambiguità della clausola, presuppone la rigorosa dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale. Cass. civ. sez. lav. 8 gennaio 2003, n. 83

In tema di interpretazione degli atti negoziali, l’art. 1362 c.c., nel prescrivere all’interprete di non limitarsi al senso letterale delle parole, non intende svalutare l’elemento letterale nell’interpretazione, ma anzi ribadire il valore fondamentale e prioritario che esso assume nella ricerca della comune intenzione delle parti, onde il giudice può ricorrere ad altri criteri ermeneutici solo quando le espressioni letterali non siano chiare, precise ed univoche, mentre, quando le suddette espressioni si presentino univoche secondo il linguaggio corrente, il giudice può attribuire alle parti una volontà diversa da quella risultante dalle parole adoperate soltanto se individua ed esplicita le ragioni per le quali le predette parti, pur essendosi espresse in un determinato modo, abbiano in realtà inteso manifestare una volontà diversa. Cass. civ. sez. lav. 2 agosto 2002, n. 11609

Nell’indagine sulla comune volontà dei contraenti non si deve cercare e chiarire l’integrale intenzione di ciascuna parte ma quel tanto delle rispettive intenzioni che si siano fuse, venendo così a dar luogo a quella comune volontà che costituisce la legge del contratto. Cass. civ. sez. II 29 settembre 1994, n. 7937

L’interpretazione degli atti negoziali – che è riservata al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e sorretta da motivazione immune da vizi – va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale, nell’ambito non già di una priorità di uno dei due criteri ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi d’interpretazione, i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale. Cass. civ. sez. lav. 9 luglio 1994, n. 6484

In tema di interpretazione dei contratti, la comune volontà dei contraenti deve essere ricostruita sulla base di due elementi principali, ovvero il senso letterale delle espressioni usate e la “ratio” del precetto contrattuale, e tra questi criteri interpretativi non esiste un preciso ordine di priorità, essendo essi destinati ad integrarsi a vicenda. (Omissis). Cass. civ., sez. , I 13 marzo 2015, n. 5102

Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c. prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365-1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico. Ne consegue che l’adozione dei predetti criteri integrativi non può portare alla dilatazione del contenuto negoziale mediante l’individuazione di diritti ed obblighi diversi da quelli contemplati nel contratto o mediante l’eterointegrazione dell’assetto negoziale previsto dai contraenti, neppure se tale adeguamento si presenti, in astratto, idoneo a ben contemperare il loro interessi. (Omissis). Cass. civ., sez. , III 24 gennaio 2012, n. 925

I criteri legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi – quale va considerato anche il principio di buona fede, sebbene questo rappresenti un punto di collegamento tra le due categorie – e ne escludono la concreta operatività, quando l’applicazione degli stessi canoni strettamente interpretativi risulti da sola sufficiente a rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti, tenuto conto, peraltro, che, nell’interpretazione del contratto, il dato testuale, pur assumendo un rilievo fondamentale, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione del contenuto dell’accordo, giacchè il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, il quale non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sè «chiare» e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara può non apparire piú tale, se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti. (Fattispecie relativa all’interpretazione di contratto di locazione con riguardo all’uso dell’immobile locato). Cass. civ. sez. III 9 giugno 2005, n. 12120 

Nell’interpretazione dei contratti, gli strumenti dell’interpretazione letterale (art. 1362, comma primo, c.c.), del coordinamento delle varie clausole e della individuazione del senso che emerge dal complesso dell’atto (art. 1363) sono legati da un rapporto di necessità ed interdipendenza (diversamente dallo strumento di cui all’art. 1362, secondo comma, che ha rilievo solo eventuale) e assumono funzione fondamentale; di conseguenza, non è possibile isolare frammenti letterali della clausola da interpretare, ma è necessario considerare il testo nella sua complessità, raffrontare e coordinare tra loro frasi e parole, onde ricondurle ad armonica unità e concordanza. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 29 marzo 2004, n. 6233

In tema di interpretazione dei contratti il criterio del riferimento al senso letterale rappresenta lo strumento di interpretazione fondamentale e prioritario, con la conseguenza che, ove le espressioni usate dalle parti siano di chiaro ed inequivoco significato, resta superata la necessità del ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici, sempre che l’interpretazione letterale consenta comunque di cogliere la comune intenzione delle parti.  Cass. civ. sez. lav. 27 giugno 1997, n. 5734

In materia di interpretazione dei contratti il principio di gerarchia vige non solo tra le norme meramente interpretative e quelle integrative, nel senso che le prime hanno la precedenza sulle seconde, ma anche tra le stesse norme interpretative, anch’esse suscettibili di una graduale applicazione in funzione del carattere sussidiario di una norma rispetto alle altre; pertanto il ricorso al comportamento delle parti successivo alla stipulazione del negozio ha carattere sussidiario rispetto all’esame del contenuto del contratto ed è, quindi, consentito solo nell’ipotesi in cui il giudice non possa ricostruire la comune volontà delle parti attraverso le espressioni del testo negoziale. Cass. civ. sez. II 25 novembre 1977, n. 5146

Le norme del c.c. sull’interpretazione dei contratti debbono essere divise in due gruppi: il primo, che comprende gli artt. 1362-1365, regola l’interpretazione soggettiva (o storica) del contratto, in quanto tende a porre in luce la concreta intenzione comune delle parti; il secondo, costituito dagli artt. 1366-1370, disciplina l’interpretazione oggettiva, così detta perché tende ad eliminare ambiguità e dubbi. Tra i due gruppi di norme esiste un rapporto di subordinazione logica del secondo al primo, dato che l’interprete può far ricorso alle regole dell’interpretazione oggettiva soltanto quando non possa determinare senza dubbiezza la comune volontà delle parti. Ai due gruppi si aggiunge l’art. 1371, la cui applicazione, volta a realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti, è doppiamente subordinata all’accertata insufficienza dei criteri interpretativi contenuti negli articoli che precedono. Cass. civ. sez. lav. 3 novembre 1977, n. 4693

Nei contratti soggetti alla forma scritta “ad substantiam”, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipula del rogito, può essere utilizzato solo per chiarire l’interpretazione del contenuto del contratto, per come desumibile dal testo, non per integrare la portata e la rilevanza giuridica della dichiarazione negoziale. Cass. civ., sez. , II 15 maggio 2018, n. 11828

In tema di interpretazione del contratto, il comportamento tenuto dalle parti dopo la sua conclusione, cui attribuisce rilievo ermeneutico il secondo comma dell’art. 1362 c.c., è solo quello di cui siano stati partecipi entrambi i contraenti, non potendo la comune intenzione delle parti emergere dall’iniziativa unilaterale di una di esse, corrispondente ai suoi personali disegni. Cass. civ., sez. , I 19 luglio 2012, n. 12535

Nell’interpretare la norma collettiva, il giudice del merito può limitarsi a ricercare la comune intenzione delle parti sulla base del tenore letterale della sola clausola da interpretare soltanto se questo riveli l’intenzione delle parti con evidenza tale da non lasciare alcuna perplessità sull’effettiva portata della clausola, dovendo far ricorso, in caso contrario, alla valutazione del comportamento successivo delle parti nell’applicazione della clausola ed alla considerazione di tutti gli altri criteri ermeneutici indicati dagli articoli 1362 e seguenti c.c. (Nella specie, al fine di valutare se la previsione dell’art. 40 del ccnl 26 novembre 1994 per i dipendenti delle poste, che elevava il periodo di comporto a 24 mesi per alcune patologie, recasse un’indicazione meramente esemplificativa ovvero tassativa delle patologie rilevanti, la S.C. ha ritenuto insufficiente il ricorso al mero criterio letterale ed ha cassato con rinvio la sentenza impugnata). Cass. civ. sez. lav. 10 marzo 2008, n. 6366

In tema di interpretazione del contratto ex art. 1362 c.c., il comportamento delle parti posteriore alla conclusione dello stesso che può assumere rilievo ai fini della sua interpretazione, è solo quello posto in essere in esecuzione ed in riferimento a quel contratto e non, quindi, un comportamento che si estrinsechi in ulteriori accordi modificativi dei precedenti, dai quali deriva un assetto negoziale autonomo e distinto, fonte di nuovi diritti ed obblighi contrattuali. (Omissis). Cass. civ. sez. I 25 settembre 2007, n. 19928

A norma dell’art. 1362 c.c. l’interpretazione del contratto richiede la determinazione della comune intenzione delle parti, da accertare sulla base del senso letterale delle parole adoperate e del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto. L’elemento letterale e quello del comportamento delle parti devono porsi, pertanto, in posizione paritaria, onde il giudice non può sottrarsi a tale duplice indagine allegando una pretesa chiarezza del significato letterale del contratto. Anche con riferimento ai contratti conclusi per facta concludentia ove non sia richiesta la prova scritta ad substantiam opera come principale criterio ermeneutico quello di individuazione della volontà delle parti, desumibile, in assenza di un testo scritto, non dal senso letterale delle parole, ma dal comportamento complessivo delle parti anche posteriore alla conclusione del contratto. Cass. civ. sez. III 1 giugno 2004, n. 10484

In tema di interpretazione del contratto, i comportamenti complessivi delle parti, anche posteriori alla conclusione del contratto, hanno funzione ermeneutica e non già integrativa del patto, in quanto per il loro tramite l’interprete, senza limitarsi al senso letterale delle parole, giunge a determinare la comune intenzione delle medesime al momento della stipula, e, quindi, la sostanza stessa dell’accordo, ma non integra la volontà pattizia con elementi ad essa estranei. Cass. civ. sez. III 26 marzo 2004, n. 6053

A norma dell’art. 1362 c.c., l’interpretazione del contratto richiede la determinazione della comune intenzione delle parti, da accertare sulla base del senso letterale delle parole adoperate e del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto. Più in particolare, se la parola scritta è il primo oggetto dell’attenzione e della ricerca dell’interprete, quando il testo si presenti non chiaro è necessario valutare il comportamento, successivo alla conclusione del negozio, tenuto dalle parti. Cass. civ. sez. I 21 marzo 2003, n. 4129

In tema di interpretazione del contratto, il comportamento complessivo dei contraenti, costituente elemento idoneo per ricavarne la comune volontà, può essere anche quello che, nell’ambito di rapporti che tra le medesime parti si rinnovano e si ripetono in negozi successivi, è desumibile dalla disciplina univoca, costante e ricorrente nei diversi e precedenti contratti aventi lo stesso contenuto, da cui sia lecito presumere che in proseguo le medesime parti ad essa vorranno continuare ad uniformarsi nella stipulazione dei contratti di quel tipo, specie quando ciò avvenga mediante un formulario standard in base ad un testo sempre identico per impostazione e per contenuto. Cass. civ. sez. III 5 agosto 2002, n. 11707

Nell’interpretazione del contratto l’elemento letterale assume funzione fondamentale, ma la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce un canone sussidiario bensì un parametro necessario e indefettibile in quanto le singole espressioni letterali devono essere inquadrate nella clausola questa deve essere raccordata alle altre clausole e al complesso dell’atto deve essere esaminato valutando il complessivo comportamento delle parti. In questa progressiva dilatazione degli elementi dell’interpretazione può assumere rilievo anche il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto, ma deve trattarsi di un comportamento convergente (e tale può essere anche un comportamento unilaterale che sia accettato dall’altra parte contrattuale, eventualmente anche tacitamente) in quanto come è «comune» l’intenzione delle parti, quale fondamentale parametro di interpretazione, «comune» deve essere il comportamento quale parametro strumentale di valutazione della suddetta intenzione. Cass. civ. sez. lav. 13 agosto 2001, n. 11089

Per interpretare la volontà negoziale della parte che assume un’obbligazione naturale, ben può essere valutato, ai sensi dell’art. 1362 c.c., il successivo comportamento dell’obbligato nella concreta attuazione degli impegni assunti. Cass. civ. sez. lav. 12 febbraio 2000, n. 1589

In tema di interpretazione del contratto, per l’identificazione della comune intenzione delle parti, ai sensi dell’art. 1362 secondo comma c.c. – il quale si riferisce al comportamento dei contraenti – non si può tener conto del comportamento dei soggetti che quel contratto non hanno posto in essere (nella specie: aventi causa delle parti contraenti) e che quindi non possono avere alcun rapporto né con l’interno volere dei contraenti né con i precetti e i comandi nei quali si è oggettivizzata la loro volontà. Cass. civ. sez. II 4 maggio 1991, n. 4914

Nei contratti di diritto privato stipulati dalla P.A., l’obbligo della forma scritta “ad substantiam” non comporta il rilievo esclusivo del criterio dell’interpretazione strettamente letterale del testo contrattuale, dovendo questa essere condotta alla stregua delle regole di ermeneutica di diritto comune, poste dagli artt. 1362 ss. c.c., potendosi quindi accertare con ogni mezzo, compreso l’esame di testimoni, l’eventuale errore materiale contenuto nel documento. Cass. civ., sez. , I 30 settembre 2011, n. 20057

Nei contratti nei quali una delle parti sia un soggetto della P.A. il principio della presunzione di legittimità dell’azione amministrativa può servire come mezzo sussidiario di interpretazione, per ricercare, nei casi dubbi, quale sia stata la reale volontà dell’amministrazione. Cass. civ. sez. I 13 gennaio 1971, n. 43

In materia contrattuale, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua e corretta motivazione, lo stabilire se una determinata clausola contrattuale sia soltanto di stile ovvero costituisca espressione di una concreta volontà negoziale con efficacia normativa del rapporto. Tuttavia, sia per il principio di conservazione delle clausole contrattuali, sia perché rispondente all’interesse dell’acquirente di un immobile a non esser limitato nella disponibilità e nel godimento del medesimo, non può ritenersi generica ed indeterminata, e pertanto di stile, senza ulteriori argomenti al riguardo, la clausola secondo la quale l’alienante garantisce la libertà del bene da ipoteche, pesi e trascrizioni pregiudizievoli, pur se essa è sintetica e onnicomprensiva. Cass. civ., sez. , II 2 settembre 2009, n. 19104

Pur essendo irrilevante il nomen iuris assegnato dalle parti ad un contratto, nondimeno ai fini della ricostruzione dell’intento degli stipulanti, secondo le norme degli art. 1362 c.c. e seguenti, anche la qualificazione è parte delle parole usate e contribuisce ad offrire elementi per ricostruire la comune intenzione dei contraenti ; in particolare, dovendosi procedere a verificare la corrispondenza del nomen con il contenuto negoziale, va ritenuta compatibile con la nozione legale di agenzia sia la previsione dello svolgimento dell’attività di promozione svolta dall’agente avvalendosi, a sua volta, di altri agenti coordinati e controllati, sia la carenza di una formale ed espressa indicazione della zona di espletamento dell’incarico, allorché tale indicazione sia per altro verso evincibile dal riferimento all’ambito territoriale in cui le parti operano al momento dell’instaurazione del rapporto. Cass. civ., sez. , lav. 30 agosto 2007, n. 18303

Rispetto alla determinazione della natura giuridica di un contratto e al suo inquadramento in uno piuttosto che in altro schema negoziale, non assume rilievo decisivo il nomen iuris eventualmente adottato dalle parti, dovendo la qualificazione “giuridica” essere effettuata sulla base di quanto disposto dalla legge e, quindi, in termini rigorosamente obbiettivi e del tutto distaccati dalla volontà privata. Tuttavia detta “qualificazione” trova il suo ineliminabile presupposto nell’accertamento della “comune intenzione” delle parti, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1362 e ss. c.c. e, se del caso, anche da elementi estrinseci all’atto considerato, ovvero da situazioni complesse, caratterizzate dal collegamento di più fattispecie negoziali. Pertanto deve escludersi che l’amministrazione finanziaria possa (ri)determinare la natura di un contratto, prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle parti e magari in contrasto con essa. Cass. civ.,sez. , V 28 luglio 2000, n. 9944

Benché l’interpretazione del contratto resti tipico accertamento devoluto al giudice del merito, qualora non sia dato rinvenire il criterio ermeneutico che ha indirizzato l’opera del predetto giudice, peraltro in presenza d’emergenze semantiche obiettivamente non corroboranti l’interpretazione proposta, sussiste la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., senza che occorra ulteriormente onerare il ricorrente di ricercare, con specificità, la “ratio” decisoria avversata, giacché il giudice viene meno al dovere d’interpretazione secondo i canoni legali, ove fornisca un’esegesi svincolata da regole conoscibili, nel senso di verificabili attraverso il vaglio probatorio, e non giustificata dal contenuto letterale dello strumento negoziale. Cass. civ., sez. , II- 25 novembre 2019, n. 30686

L’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione antecedente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, oppure – nel vigore della novellato testo di detta norma – nella ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti Cass. civ., sez. , III 14 luglio 2016, n. 14355

In tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati. Cass. civ., sez. , III 10 febbraio 2015, n. 2465

L’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di emeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c. o di motivazione inadeguata ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione. Pertanto onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa. Cass. civ. sez. I 26 ottobre 2007, n. 22536

La scelta da parte del giudice del merito del mezzo ermeneutico più idoneo all’accertamento della comune intenzione dei contraenti non è sindacabile in sede di legittimità qualora sia stato rispettato il principio del «gradualismo» secondo il quale deve farsi ricorso (anche in caso di atti negoziali unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale ex art. 1324 c.c.) ai criteri interpretativi sussidiari, come l’interpretatio contra stipulatorem in presenza di modulo predisposto da uno dei contraenti ai sensi dell’art. 1370 c.c., solo quando risulti non appagante il ricorso ai criteri di cui agli artt. 1362-1365 c.c., ed il giudice fornisca compiuta ed articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale. Cass. civ. sez. III 30 maggio 2007, n. 12721

In tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima – consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti – è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c., mentre la seconda – concernente l’inquadramento della comune volontà, come appurata, nello schema legale corrispondente – risolvendosi nell’applicazione di norme giuridiche può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo. Cass. civ. sez. III 12 gennaio 2006, n. 420

Costituisce questione di merito, rimessa al giudice competente, valutare il grado di chiarezza della clausola contrattuale, ai fini dell’impiego articolato dei vari criteri ermeneutici; deve escludersi, quindi, che nel giudizio di cassazione possa procedersi a una diretta valutazione della clausola contrattuale, al fine di escludere la legittimità del ricorso da parte del giudice di merito al canone ermeneutico del comportamento successivo delle parti. Cass. civ. sez. III 15 marzo 2005, n. 5624

La erronea interpretazione del contratto individuale di lavoro da parte del giudice del merito attiene ad un punto decisivo, ed è perciò idonea a comportare la cassazione della sentenza, solo ove si dimostri che con la interpretazione propugnata il ricorrente conseguirebbe l’oggetto della pretesa. Cass. civ. sez. lav. 23 luglio 2004, n. 13886

In ragione del limite del sindacato della Corte di Cassazione – cui non è consentita l’interpretazione diretta di disposizioni di natura contrattuale, ancorché interessanti, come quelle collettive, un notevole numero di destinatari, – è «fisiologico» che due opposte interpretazioni di giudici di merito di una medesima disposizione collettiva (nella specie, artt. 46, 47 e 53 del C.C.N.L. dei dipendenti delle Poste Italiane SpA) siano entrambe convalidate o censurate dalla S.C., a seconda del superamento o no del controllo (a questa attribuito) limitato alla verifica della correttezza della motivazione e del rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c. Cass. civ. sez. lav. 23 agosto 2003, n. 12409

In tema di interpretazione del contratto, alla Corte di cassazione è affidato il compito di verificare che non sussista un vizio di attività del giudice del merito, rilevabile solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e nel caso di riscontro di una motivazione contraria a logica ed incongrua, tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. D’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra. Cass. civ. sez. III 17 luglio 2003, n. 11193

Il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile nell’ambito dell’error in procedendo; in tal caso la Corte di cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali, tenendo conto della situazione dedotta in causa, della volontà effettiva della parte e delle finalità che essa intende perseguire. Cass. civ. sez. lav. 24 gennaio 2003, n. 1097 

In tema d’interpretazione del contratto, la parte che denunci in cassazione l’erronea determinazione, in sede di merito, della volontà negoziale è tenuta ad indicare quali canoni o criteri interpretativi siano stati violati; in mancanza, l’individuazione della volontà contrattuale – che, avendo ad oggetto una realtà fenomenica ed obiettiva, si risolve in un accertamento di fatto, istituzionalmente riservato al giudice del merito – è censurabile non già quando le ragioni addotte a sostegno della decisione sono diverse da quelle della parte, bensì allorché esse siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica. Cass. civ. sez. lav. 12 marzo 1994, n. 2415

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