Art. 1223 – Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262 - Aggiornato alla legge 26 novembre 2021, n. 206)

Risarcimento del danno

Articolo 1223 - codice civile

Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo (1218 ss., 1274) deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno (2056), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (1382, 1518, 1589, 1591, 1696, 1905, 2056 ss.).

Articolo 1223 - Codice Civile

Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo (1218 ss., 1274) deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno (2056), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta (1382, 1518, 1589, 1591, 1696, 1905, 2056 ss.).

Massime

In tema di inadempimento contrattuale, il risarcimento riveste natura e svolge funzione sostitutiva della prestazione mancata e gli effetti della situazione pregiudizievole permangono sino a quando il danno sia risarcito, ossia no alla data della sentenza se la riparazione sia stata richiesta al giudice, sicché il pregiudizio derivante dalla mancata acquisizione di un bene deve essere risarcito con la prestazione del suo equivalente in danaro, determinato con riferimento al momento in cui avviene la liquidazione e non a quello in cui si realizza la violazione contrattuale. Cass. civ. sez. II, 29 febbraio 2016, n. 3940

In tema di liquidazione del “quantum” risarcibile, la misura del danno non deve essere necessariamente contenuta nei limiti di valore del bene danneggiato ma deve avere per oggetto l’intero pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, essendo il risarcimento diretto alla completa “restitutio in integrum” – per equivalente o in forma specifica, quest’ultima esperibile anche in materia contrattuale – del patrimonio leso. (Omissis). Cass. civ. sez. III, 2 luglio 2010, n. 15726

Il diritto al risarcimento del danno patrimoniale derivante da responsabilità contrattuale viene in essere al momento in cui l’inadempimento dell’obbligato incide la sfera giuridica altrui provocando, per il soggetto leso, la diminuzione del suo patrimonio, che deve essere reintegrato in modo da ricostruirne la consistenza che avrebbe avuto se il fatto lesivo non si fosse verificato, eliminando le conseguenze pregiudizievoli che sono state cagionate da quel comportamento, nel senso, come indica l’art. 1223 c.c. sia di annullare la perdita subita (danno emergente), sia di fare entrare il mancato guadagno (lucro cessante): fine deriva, pertanto, che le vicende anteriori o posteriori al momento in cui il pregiudizio si è verificato non rilevano a quel fine. Cass. civ. sez. III, 17 maggio 2010, n. 11967

Ai fini del risarcimento del danno patrimoniale da inadempimento, deve essere in concreto fornita la dimostrazione dell’esistenza del pregiudizio lamentato e il diretto nesso causale con la condotta illecita. Deve, pertanto, escludersi che il giudice possa fare ricorso alle presunzioni in mancanza dell’allegazione e della prova di circostanze di fatto gravi, univoche concordanti dalle quali desumere il danno nella sua effettività e in ordine al quantum limitarsi ad affidarne la determinazione al consulente tecnico d’ufficio senza la preventiva identificazione delle singole voci da valutare. (Omissis). Cass. civ. sez. II, 20 novembre 2007, n. 24140

In ipotesi di inadempimento contrattuale, la parte non inadempiente ha diritto al ristoro di tutti i pregiudizi subiti a causa della condotta della controparte inadempiente, compreso il rimborso delle spese affrontate in vista del proprio adempimento e, specificamente, ove il contratto in questione sia costituito da un preliminare avente ad oggetto il trasferimento di una cosa determinata, gli esborsi sostenuti per la realizzazione di quest’ultima o, comunque, finalizzati a renderla conforme all’oggetto delle pattuizioni contrattuali. Cass. civ. sez. II, 31 agosto 2005, n. 17562

In tema di responsabilità extracontrattuale, il carattere patrimoniale del danno riguarda non solo l’accertamento di un saldo negativo nello stato patrimoniale del danneggiato ma anche l’incidenza in concreto di una diminuzione dei valori e delle utilità (suscettibili secondo una valutazione tipica, che si riflette sul quantum risarcitorio, di commisurazione in denaro) di cui il medesimo può disporre, costituendo il patrimonio, ai fini in considerazione, quell’insieme di beni, valori e utilità tra loro collegati sotto il profilo e mediante un criterio funzionale. Fine consegue che il carattere della patrimonialità, che attiene al danno e non al bene leso dal fatto dannoso, non implica sempre e necessariamente un esborso monetario né una perdita di reddito o prezzo, potendo configurarsi anche come diminuzione dei valori o delle utilità economiche del danneggiato. Cass. civ. sez. II, 5 luglio 2002, n. 9740

Anche in ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento, i criteri da applicare per la determinazione del danno sono quelli di cui all’art. 1223 c.c.; pertanto, sono risarcibili i danni conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento e il danno può essere liquidato se la parte che si assume danneggiata fornisce la prova della sua effettiva esistenza. Cass. civ. sez. II, 30 settembre 1999, n. 8278

In tema di ristoro del danno patrimoniale derivante dal fatto illecito, istantaneo, l’accertamento delle conseguenze pregiudizievoli verificatesi (perdita subita e mancato guadagno: art. 1223 c.c.), va riferito al momento del fatto causativo del danno, e pertanto sono irrilevanti le vicende anteriori o posteriori a tale momento. Cass. civ. sez. II, 10 ottobre 1997, n. 9852

Con riguardo al risarcimento dei danni richiesto per l’inadempimento di un obbligo di consegna di un bene mobile (nella specie, oggetto di un legato testamentario), che il soggetto tenutovi abbia indebitamente alienato a terzi, ove quel bene abbia perduto, nelle more del giudizio, parte del suo valore, il giudice del merito deve procedere alla liquidazione del danno per equivalente facendo riferimento al valore della cosa al tempo della mancata consegna, atteso che il creditore, con opportuni atti dispositivi o di impiego ad essa inerenti, avrebbe potuto evitare il pregiudizio derivante dal suo deprezzamento. Cass. civ. sez. II, 27 aprile 1991, n. 4636

In tema di liquidazione del danno, la locuzione “perdita subita”, con la quale l’art. 1223 c.c. individua il danno emergente, non può essere considerata indicativa dei soli esborsi monetari o di diminuzioni patrimoniali già materialmente intervenuti, bensì include anche l’obbligazione di effettuare l’esborso, in quanto il “vinculum iuris, nel quale l’obbligazione stessa si sostanzia, costituisce già una posta passiva del patrimonio del danneggiato, consistente nell’insieme dei rapporti giuridici, con diretta rilevanza economica, di cui una persona è titolare. Cass. civ. sez. III, 10 novembre 2010, n. 22826

In caso di sinistro stradale, ove il danneggiato abbia dato incarico ad uno studio di assistenza infortunistica di svolgere di attività stragiudiziale volta a richiedere il risarcimento del danno asseritamente sofferto, la corrispondente spesa sostenuta non è configurabile come danno emergente e non può pertanto, essere riversata sul danneggiante o sulla sua compagnia di assicurazione quando sia stata superflua ai fini di una pipronta denizione del contenzioso, non avendo avuto in concreto utilità per evitare il giudizio o per assicurare una tutela più rapida risolvendo problemi tecnici di qualche complessità. Cass. civ. sez. III, 13 aprile 2017, n. 9548

In caso di sinistro automobilistico, nel giudizio instaurato per il risarcimento del danno le spese precedentemente sostenute dal danneggiato per l’attività stragiudiziale prestata da una società di infortunistica stradale hanno natura di danno emergente e la loro utilità, in funzione della possibilità di porle a carico del danneggiante, deve essere valutata “ex ante”, avuto riguardo a quello che poteva ragionevolmente presumersi essere l’esito del futuro giudizio, e sulla base delle prove dedotte dal danneggiato, cui compete l’onere di dimostrare di avere effettivamente sopportato il relativo esborso. Cass. civ. sez. VI, 13 marzo 2017, n. 6422

In caso di sinistro stradale, qualora il danneggiato abbia fatto ricorso all’assistenza di uno studio di consulenza infortunistica stradale ai fini dell’attività stragiudiziale diretta a richiedere il risarcimento del danno asseritamente sofferto al responsabile ed al suo assicuratore, nel successivo giudizio instaurato per ottenere il riconoscimento del danno, la configurabilità della spesa sostenuta per avvalersi di detta assistenza come danno emergente non può essere esclusa per il fatto che l’intervento del suddetto studio non abbia fatto recedere l’assicuratore dalla posizione assunta in ordine all’aspetto della vicenda che era stata oggetto di discussione e di assistenza in sede stragiudiziale, ma va valutata considerando, in relazione all’esito della lite su tale aspetto, se la spesa sia stata necessitata e giustificata in funzione dell’attività di esercizio stragiudiziale del diritto al risarcimento. Cass. civ. sez. III, 21 gennaio 2010, n. 997

Poiché il risarcimento del danno si estende agli oneri accessori e conseguenziali, se esso è liquidato in base alle spese da affrontare per riparare un veicolo, il risarcimento comprende anche l’Iva, pur se la riparazione non è ancora avvenuta e a meno che il danneggiato, per l’attività svolta, abbia diritto al rimborso o alla detrazione dell’Iva versata perché l’autoriparatore, per legge (art. 18 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633), deve addebitarla, a titolo di rivalsa, al committente. Cass. civ. sez. III, 14 ottobre 1997, n. 10023

Il risarcimento del danno da fatto illecito ha la funzione di porre il patrimonio del danneggiato nello stesso stato in cui si sarebbe trovato senza l’evento lesivo, e, quindi, trova presupposto e limite nell’effettiva perdita subita da quel patrimonio, in conseguenza del fatto stesso. Pertanto, in tema di danni conseguenti ad incidente stradale, le spese sostenute per la riparazione del veicolo sono risarcibili solo nella misura corrispondente all’obiettivo costo della riparazione medesima, desumibile dai prezzi normalmente praticati in una determinata zona, mentre non possono far carico al responsabile le somme che il danneggiato abbia erogato in misura superiore a quel costo, salvo che quest’ultimo dimostri la ricorrenza di particolari ragioni giustificative del maggiore esborso (quale, ad esempio, la necessità di rivolgersi ad un’unica officina di riparazioni). Cass. civ. sez. III, 3 giugno 1977, n. 2268

In tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale gravante sulla stessa, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura ove egli opera non può ritenersi estraneo il padre che deve, perciò considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra cui deve ricomprendersi il pregiudizio patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei gli. (Nella specie, era stato eseguito in maniera erronea un intervento di raschiamento uterino in seguito ad una non corretta diagnosi di aborto interno, accertata dopo la ventunesima settimana e, quindi, oltre il termine previsto dalla l. n. 194 del 22 maggio 1978, con la conseguenza che la gravidanza era proseguita e si era conclusa con la nascita indesiderata di una bambina). Cass. civ. sez. III, 5 febbraio 2018, n. 2675

In tema di responsabilità del medico (o della struttura sanitaria) per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, trattandosi di inadempimento contrattuale, il danno al cui risarcimento il debitore è tenuto non è solo quello alla salute, ma anche il danno economico che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento in termini di causalità adeguata, quale il danno consistito nelle ulteriori spese di mantenimento della persona nata con malformazioni, pari al differenziale tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio sano e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto da gravi patologie. Cass. civ. sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13

Nel caso di responsabilità del sanitario per il mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza nei casi previsti dalla legge 22 maggio 1978 n. 194, il danno risarcibile è rappresentato non solo da quello dipendente dal pregiudizio alla salute sio-psichica della donna specificamente tutelata dalla predetta legge, ma anche da quello più genericamente dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell’inadempimento del sanitario nonché del danno biologico in tutte le sue forme. Cass. civ. sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488

Nel caso di responsabilità del sanitario per la mancata interruzione della gravidanza nei casi previsti dalla L. 22 maggio 1978, n. 194, il danno risarcibile è solo quello dipendente dal pregiudizio alla salute sio-psichica della donna specificamente tutelata dalla predetta legge, e non quello più genericamente dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell’inadempimento del sanitario, quale il costo della nascita del figlio indesiderato o del suo allevamento, che di per sé non sono considerati un fatto ingiustamente dannoso neppure in presenza di precarie condizioni economiche della madre, le quali sono assunte come condizione giustificatrice della interruzione della gravidanza solo per la loro possibile influenza sulle condizioni sio psichiche della donna. Cass. civ. sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464

Il danno patrimoniale da mancato guadagno (nella specie, per omessa consegna dell’immobile permutato), concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità) il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, e deve pertanto escludersi per i mancati guadagni meramente ipotetici, dipendenti da condizioni incerte: giudizio probabilistico, questo, che, in considerazione della particolare pretesa, ben può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l’entità del danno subito. (Omissis). Cass. civ. sez. II, 20 maggio 2011, n. 11254

In tema di risarcimento del danno subito dal proprietario per la mancata o ridotta utilizzazione di un bene immobile, il pregiudizio va determinato verificando l’effettivo valore locativo del bene, in modo da accertare il mancato reddito ritraibile nell’arco temporale considerato, tenendo conto dell’ andamento del mercato immobiliare, che comporta che gli immobili si rivalutano con un ritmo più elevato, o comunque diverso, rispetto a quello di svalutazione della moneta secondo gli indici calcolati dall’ISTAT; resta poi salva, trattandosi di debito di valore, l’applicazione dell’aggiornamento istat per la rivalutazione all’attualità delle somme liquidate per ciascuno dei vari anni considerati. Cass. civ. sez. II, 6 giugno 2007, n. 13242

Compete al giudice del merito, avvalendosi al riguardo dei suoi poteri di libero apprezzamento delle prove, determinare, sulla base dei criteri dettati dagli artt. 1223 e ss. c.c. la effettiva consistenza del lucro cessante al netto dei costi non sopportati dal danneggiato e che sarebbero stati necessari a produrlo. La relativa eccezione della parte costituisce pertanto una mera difesa, e, quindi, una eccezione c.d. impropria, in quanto tale rilevabile in ogni stato e grado del giudizio di merito senza i limiti di preclusione del giudicato interno. Fine consegue che costituisce omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, denunciabile in cassazione ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. il mancato esame di tale eccezione. Cass. civ. sez. lav. 30 luglio 2004, n. 14667

In tema di risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale, una volta ritenuta provata dal giudice del merito la sussistenza del mancato guadagno che al danneggiato è stato provocato dal ritardato pagamento della somma liquidatagli a titolo risarcitorio, il lucro cessante va commisurato all’ammontare progressivo al quale la stessa somma perviene in applicazione del criterio di rivalutazione della stessa somma prescelto dal giudice del merito. Cass. civ. sez. III, 16 maggio 2003, n. 7631

Il lucro cessante, concretandosi questo nell’accrescimento patrimoniale in concreto ed effettivo pregiudicato o impedito dall’inadempimento della obbligazione contrattuale, presuppone almeno la prova, sia pure indiziaria, della utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità) il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta e deve essere, perciò escluso per quei mancati guadagni che sono meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte, quali quelle legate ad un improbabile fatto del terzo. Cass. civ. sez. II, 3 settembre 1994, n. 7647

Ai fini della liquidazione del danno da lucro cessante, subito da un soggetto che godeva di un reddito saltuario per la discontinuità dell’occupazione, o incerto per i rischi inerenti all’esercizio di un’impresa, non può farsi ricorso ad un parametro aritmetico corrispondente alla misura della riduzione della capacità lavorativa, ma deve considerarsi, in riferimento a determinate circostanze (età, condizione sociale, attitudine ad un proficuo lavoro generico) la misura presumibile di utilizzazione possibile di tale capacità. Cass. civ. sez. III, 12 giugno 1984, n. 3491

Nella liquidazione del danno contrattuale, il lucro cessante rappresenta quanto il danneggiato avrebbe ricavato in caso di adempimento dell’obbligazione al netto delle spese, ma ciò non esclude che egli abbia diritto, qualora tali spese abbia realmente sostenuto sia pure in parte, di esserne ugualmente risarcito a titolo di danno emergente, conseguente all’inadempimento del contratto da lui subito. Cass. civ. sez. II, 28 maggio 1983, n. 3694

In materia di risarcimento del danno, il lucro cessante deve essere risarcito quando sia provato che il danno si produrrà nel futuro secondo una ragionevole e fondata previsione, e non solo in caso di assoluta certezza. Tuttavia, poiché il grado di ragionevole attendibilità del prodursi del danno in futuro varia secondo le circostanze concrete, di esso deve tenersi conto ai fini della misura del risarcimento, ed in particolare per la determinazione del tasso di capitalizzazione del mancato reddito. Cass. civ. sez. I, 14 aprile 1983, n. 2602

In tema di inadempimento contrattuale, il risarcimento riveste natura e svolge funzione sostitutiva della prestazione mancata e gli effetti della situazione pregiudizievole permangono sino a quando il danno sia risarcito, ossia no alla data della sentenza se la riparazione sia stata richiesta al giudice, sicché il pregiudizio derivante dalla mancata acquisizione di un bene deve essere risarcito con la prestazione del suo equivalente in danaro, determinato con riferimento al momento in cui avviene la liquidazione e non a quello in cui si realizza la violazione contrattuale. Cass. civ. sez. II, 29 febbraio 2016, n. 3940

Il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, esclusi solo i mancati guadagni meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte, sicché la sua liquidazione richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l’entità del danno subito. Cass. civ. sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24632

Nell’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento e qualora il contraente non in colpa sia una impresa industriale, il danno risarcibile può essere riferito alla impossibilità di investire nell’attività produttiva le somme dovute dal debitore inadempiente, detratte peraltro le somme pari ai costi dell’attività d’impresa necessari per produrre la prestazione già eseguita; ma se il giudice di merito sceglie un criterio diverso e cioè quello del «maggior costo» dei finanziamenti esterni rispetto a quelli (provenienti dal suo debitore) su cui l’imprenditore aveva fatto affidamento, non può sfuggire alla conseguenza che, se il creditore ha ottenuto, pur con un costo elevato, il denaro che il debitore avrebbe dovuto pagare, si è posto nella stessa situazione del creditore tempestivamente pagato ed ha subito solo il danno derivante da quei costi maggiori, oppure, in alternativa, (se maggiore o se dimostrato) il danno derivante dai mancati investimenti. Cass. civ. sez. I, 20 gennaio 1995, n. 625

Il danno da risarcire al promittente compratore, ove sia accolta la domanda di risoluzione del contratto preliminare di vendita dallo stesso proposta per inadempimento del promittente venditore, non può comprendere i frutti della cosa promessa in vendita successivi alla domanda di risoluzione perché questa, comportando la rinuncia definitiva alla prestazione del promittente venditore (art. 1453, comma 3, c.c.), preclude anche al promittente compratore di lucrare i frutti che dalla cosa avrebbe tratto dopo la rinuncia. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata nella parte in cui, dichiarata la risoluzione del contratto preliminare, ha negato il diritto al risarcimento del danno correlato alla mancata percezione dei canoni che sarebbero stati riscossi, ove fosse stato concluso il contratto definitivo, per la locazione estiva dell’immobile promesso in vendita, sito in località marina). Cass. civ. sez. VI-II, 8 maggio 2018, n. 11012

In tema di preliminare di vendita immobiliare, al promittente venditore che agisca per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno, per il caso di inadempimento del promissario acquirente, deve essere liquidato il pregiudizio per la sostanziale incommerciabilità del bene nella vigenza del preliminare, la cui sussistenza è “in re ipsa” e non necessita di prova, mentre, laddove le domande risolutoria e risarcitoria siano proposte dal promissario acquirente, a causa dell’inadempimento del promittente venditore, il risarcimento spetta solo se i danni lamentati siano conseguenza immediata e diretta del dedotto inadempimento e sempre che il danneggiato, anche se invochi l’esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, ex art. 1226 c.c. fornisca la prova della loro effettiva esistenza. Cass. civ. sez. II, 31 maggio 2017, n. 13792

I danni derivati al compratore di un immobile per l’inadempimento del venditore all’obbligo di consegnarglielo, dopo l’ottenimento del trasferimento coattivo della proprietà di esso (art. 2932 c.c.), decorrono dalla data stabilita per la stipula del definitivo, sostituito “inter partes”, con identico contenuto, dalla sentenza costitutiva, e non dalla data di questa, né dalla trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concluderlo (art. 2652, n. 2 c.c.), determinante per gli effetti della sentenza rispetto ai terzi. Cass. civ. sez. II, 28 marzo 2017, n. 7940

In materia di contratto preliminare, il risarcimento del danno, imputabile al promittente venditore per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, si liquida nella misura pari alla differenza tra il valore commerciale del bene medesimo, al momento in cui l’inadempimento è divenuto definitivo, ed il prezzo pattuito. Cass. civ. sez. III, 11 novembre 2015, n. 22979

Il promissario acquirente di un immobile, che, immesso nel possesso all’atto della firma del preliminare, si renda inadempiente per l’obbligazione del prezzo, da versarsi prima del definitivo, e provochi la risoluzione del contratto preliminare, è tenuto al risarcimento del danno in favore della parte promittente venditrice, atteso che la legittimità originaria del possesso viene meno a seguito della risoluzione lasciando che l’occupazione dell’immobile si configuri come “sine titulo”. Fine consegue che tali danni, originati dal lucro cessante per il danneggiato che non ha potuto trarre frutti né dal pagamento del prezzo né dal godimento dell’immobile, sono legittimamente liquidati dal giudice di merito, con riferimento all’intera durata dell’occupazione e, dunque, non solo a partire dalla domanda giudiziale di risoluzione contrattuale. Cass. civ. sez. II, 21 novembre 2011, n. 24510

A seguito della risoluzione di un preliminare di vendita immobiliare con presa di possesso anticipata del bene da parte del promissario acquirente, il promittente venditore adempiente, conseguendo con la restituzione del bene solo in parte la ripartizione del pregiudizio subito, con riguardo al danno emergente, ha diritto all’ulteriore risarcimento connesso alla mancata disponibilità dell’immobile, cioè del reddito che avrebbe potuto ricavare ove il bene fosse rimasto nella sua disponibilità (lucro cessante) determinabile con riferimento al valore locativo dell’immobile maturato nel periodo di tempo intercorrente tra la data della consegna all’acquirente e quella della sua restituzione. Cass. civ. sez. II, 29 novembre 2001, n. 15185

Il risarcimento del danno futuro, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante, non può compiersi in base ai medesimi criteri di certezza che presiedono alla liquidazione del danno già completamente verificatosi nel momento del giudizio, e deve avvenire secondo un criterio di rilevante probabilità; a tal fine, il rischio concreto di pregiudizio è configurabile come danno futuro ogni volta che l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto. (Omissis). Cass. civ. sez. III, 27 aprile 2010, n. 10072

In tema di risarcimento del danno, quale conseguenza del fatto illecito altrui, è necessaria la dimostrazione, da parte del danneggiato, non solo della potenziale lesività del fatto altrui, ma che tale fatto è stato causa di un danno concreto. Pertanto, per la risarcibilità del danno futuro è necessario un elevato grado di probabilità che esso si verifichi in base ad un criterio di regolarità (id quod plerumque accidit); fine consegue che per ottenere il riconoscimento del diritto risarcitorio corrispondente al lucro cessante futuro, non è sufficiente la prova dei postumi permanenti derivati dalle lesioni subite dal danneggiato, ma occorre che egli provi che dalle stesse è derivata la riduzione della capacità lavorativa specifica, non originandosi dall’invalidità personale permanente automaticamente la presunzione di danno da lucro cessante futuro. Cass. civ. sez. III, 27 luglio 2005, n. 15676

La liquidazione del risarcimento di danni futuri comporta la detrazione, sulla somma assegnata al danneggiato, di interessi a scalare per il periodo di pagamento anticipato del capitale, detrazione da calcolarsi con riferimento al momento dell’effettiva corresponsione della somma (o, in mancanza, al momento della liquidazione della stessa), e non anche con riguardo alla data del fatto illecito. Cass. civ. sez. III, 4 giugno 2001, n. 7507

Nella liquidazione dei danni per spese future della parte lesa da un fatto illecito extracontrattuale, il giudice deve prima procedere alla rivalutazione delle somme dal momento in cui il danno è stato stimato alla data della sentenza e poi operare, sulla somma così determinata, la riduzione per l’incidenza della anticipata corresponsione rispetto all’epoca dei relativi esborsi. Cass. civ. sez. III, 15 febbraio 1994, n. 1484

Con riguardo al risarcimento del danno futuro, ossia del danno non ancora verificatosi al momento della liquidazione, è in ogni caso necessario che risulti provata o comunque incontestata l’esistenza di un danno risarcibile, perché possa essere valutato dal giudice in via equitativa, non essendo sufficiente la dimostrazione di un danno solo potenziale o possibile. Cass. civ. sez. II, 1 giugno 1993, n. 6109

La liquidazione del risarcimento di danni futuri comporta la detrazione sulla somma assegnata al danneggiato di interessi a scalare per il periodo di pagamento anticipato del capitale, a meno che l’omessa detrazione risulti motivata espressamente dall’esigenza di meglio adeguare, nel caso concreto, la misura del risarcimento all’entità del danno. (Nella specie la Suprema Corte ha confermato la pronuncia del giudice del merito il quale, nel liquidare ad un agente il risarcimento dei danni futuri, commisurati, in ragione di speciali pattuizioni con il proponente, ad annualità di provvigioni non ancora maturate alla data della liquidazione suddetta, aveva negato, oltre alla rivalutazione monetaria, anche gli interessi compensativi ed aveva detratto interessi a scalare per il periodo del pagamento anticipato della sorte capitale). Cass. civ. sez. I, 4 febbraio 1988, n. 1161

In materia di tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle direttive CEE relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari, il riconoscimento di un danno ulteriore a quello parametrato sull’art. 11 della l. n. 370 del 1999 esige un onere di allegazione di perdita di “chance” specifica, con l’individuazione puntuale delle occasioni favorevoli in concreto perdute in ragione della mancata possibilità di ottenere un titolo conforme alle caratteristiche imposte dal diritto comunitario e non già con la mera deduzione dell’impossibilità di utilizzazione del titolo in astratto. (In applicazione del principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso deducente omessa pronuncia in ordine al richiesto ulteriore danno da perdita di “chance”, subito per via del mancato riconoscimento del valore legale della specializzazione secondo il diritto comunitario, essendo la censura incentrata su un’allegazione generica in quanto legata alla mera impossibilità dello sfruttamento del titolo all’estero e di farne punteggio nei concorsi in Italia). Cass. civ. sez. III, 22 novembre 2019, n. 30502

In tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, la perdita di chance a carattere non patrimoniale consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente – secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa) soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la sussistenza di una perdita di chance rilevando che, anche in caso di corretta esecuzione della prestazione sanitaria, la possibilità di sopravvivenza della paziente era talmente labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini probabilistici). Cass. civ. sez. III-, 11 novembre 2019, n. 28993

In materia perdita di “chance”, l’attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula una incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno; fine consegue che, provato il nesso causale rispetto ad un evento di danno accertato nella sua esistenza e nelle sue conseguenze dannose risarcibili, il risarcimento di quel danno sarà dovuto integralmente. Cass. civ. sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641

In caso di perdita di una “chance” a carattere non patrimoniale, il risarcimento non potrà essere proporzionale al “risultato perduto” (nella specie, maggiori “chance” di sopravvivenza di un paziente al quale non era stata diagnosticata tempestivamente una patologia tumorale con esiti certamente mortali), ma andrà commisurato, in via equitativa, alla “possibilità perduta” di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa); tale “possibilità”, per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto. Cass. civ. sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641

Il c.d. “modello patrimonialistico”, che storicamente ha costituito il riferimento teorico della evoluzione giurisprudenziale in tema di perdita di “chance”, mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano non patrimoniale; la “chance” patrimoniale, infatti, presenta i connotati dell’interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa), e cioè postula la preesistenza di un “quid” su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa, mentre la chance “non pretensiva”, pur essendo anch’essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente (segnatamente nel sistema della responsabilità sanitaria), è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una preesistente situazione sfavorevole (cioè patologica), rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un “quid” inteso come preesistenza positiva. Fine consegue che, in sede risarcitoria, il giudice di merito deve inevitabilmente tener conto di tale diversità, sia pure sul piano strettamente equitativo, ai fini della liquidazione del danno. Cass. civ. sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641

In tema di danno alla persona, la perdita di “chance”, ovvero di una concreta possibilità di conseguire un determinato bene della vita, integrante la lesione di un’entità patrimoniale attuale suscettibile di autonoma valutazione economica, non può coesistere con il danno alla salute (e con il correlato danno morale), il quale presuppone l’accertamento che l’illecito si sia concretizzato in una menomazione dell’integrità psicofisica, e che, di conseguenza, l’inadempimento del sanitario abbia non soltanto privato il paziente di una possibilità di cura ma concretamente inciso sullo stato di salute. Cass. civ. sez. III, 15 febbraio 2018, n. 3691

La perdita di “chance”, pur potendo essere costituita dalla perdita di una mera possibilità presente nella sfera giuridica del danneggiato, deve tuttavia essere concreta ed effettiva, non meramente teorica ed ipotetica, e la sua compromissione, ove dedotta, deve essere provata dall’attore, identificandosi con la prova stessa del danno. (Nella specie, in tema di risarcimento del danno da perdita della “possibilità di una vita anche solo di poco più lunga o migliore” che si assumeva conseguente al ritardo nella consegna di un esame diagnostico, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva respinto la domanda in quanto, in base all’accertamento tecnico, il ritardo era stato assolutamente ininfluente sull’evoluzione della patologia tumorale, particolarmente rara ed aggressiva, sicchè non vi era stata alcuna menomazione della possibilità di cura, con ciò risultando accertata l’insussistenza sia della “chance” che si assumeva menomata, sia, conseguentemente, del danno denunciato). Cass. civ. sez. III, 14 novembre 2017, n. 26822

La perdita di “chance” costituisce un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente nella perdita di una possibilità attuale ed esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete dell’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza. Cass. civ. sez. I, 30 settembre 2016, n. 19604

Il danno patrimoniale da perdita di “chance” è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione “ex ante” da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale; l’accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati. (Omissis). Cass. civ. sez. III, 12 febbraio 2015, n. 2737

L’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante o da perdita di “chance” esige la prova, anche presuntiva, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile. Pertanto, nel caso di richiesta risarcitoria per morte da fatto illecito avanzata dal coniuge superstite, quest’ultimo, pur non essendo obbligato a fornire la prova rigorosa dello stabile contributo economico ricevuto dal consorte defunto, non è tuttavia esonerato dall’indicare al giudice gli elementi da cui possa dedursi la perdita di prestazioni o vantaggi connessi all’esistenza in vita della vittima. Cass. civ. sez. III, 13 luglio 2011, n. 15385

In tema di risarcimento del danno, il creditore che voglia ottenere, oltre il rimborso delle spese sostenute, anche i danni derivanti dalla perdita di chance che, come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile dev’essere conseguenza immediata e diretta. (Omissis ). Cass. civ. sez. lav. 20 giugno 2008, n. 16877

La liquidazione del danno da ritardato adempimento di un’obbligazione di valore, ove il debitore abbia pagato un acconto prima della quantificazione definitiva, deve avvenire: a) devalutando l’acconto ed il credito alla data dell’illecito; b) detraendo l’acconto dal credito; c) calcolando gli interessi compensativi individuando un saggio scelto in via equitativa, ed applicandolo prima sull’intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo intercorso dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto, e poi sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto, rivalutata annualmente, per il periodo che va da quel pagamento no alla liquidazione definitiva. civ. sez. III, 20 aprile 2017, n. 9950

Qualora, prima della liquidazione definitiva del danno da fatto illecito, il responsabile versi un acconto al danneggiato, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso un’operazione che consiste, preliminarmente, nel rendere omogenei entrambi (devalutandoli, alla data dell’illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione), per poi detrarre l’acconto dal credito e, inne, calcolando, gli interessi compensativi -finalizzati a risarcire il danno da ritardato adempimento – sull’intero capitale, per il periodo che va dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto, solo sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto rivalutato, per il periodo che va dal suo pagamento no alla liquidazione definitiva. Cass. civ. sez. III, 19 marzo 2014, n. 6347

In materia di risarcimento del danno da fatto illecito, qualora – prima della liquidazione definitiva – il responsabile versi un acconto al danneggiato, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio non secondo i criteri di cui all’art. 1194 c.c. (applicabile solo alle obbligazioni di valuta, non a quelle di valore, qual è il credito risarcitorio da danno aquiliano), ma devalutando alla data dell’evento dannoso sia il credito risarcitorio (se liquidato in moneta attuale) che l’acconto versato, quindi detraendo quest’ultimo dal primo e calcolando sulla differenza il danno da ritardato adempimento. Cass. civ. sez. III, 3 aprile 2013, n. 8104

In tema di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale, il danno risarcibile coincide con la perdita o il mancato guadagno conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, la cui delimitazione è determinata in base al giudizio ipotetico sulla differenza tra la situazione dannosa e quella che sarebbe stata se il fatto dannoso non si fosse verificato, sicché, ai fini dell’accertamento dell’estensione della responsabilità, acquisisce rilievo, quale eventuale fattore sopravvenuto, anche il successivo comportamento del contraente adempiente. Cass. civ. sez. II, 26 settembre 2016, n. 18832

In tema di nesso causale, esistono due momenti diversi del giudizio civile, costituito il primo dalla ricostruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità, per il quale la problematica causale, detta della causalità materiale o di fatto, è analoga a quella penale di cui agli art. 40 e 41 c.p. ed il danno rileva solo come evento lesivo, ed il secondo, al quale va riferita la regola dell’art. 1223 c.c. che riguarda la determinazione dell’intero danno cagionato oggetto dell’obbligazione risarcitoria, attribuendosi rilievo, all’interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, fondata su un giudizio formulato in termini ipotetici. (Omissis). Cass. civ. sez. I, 23 dicembre 2010, n. 26042

Il risarcimento per l’inadempimento dell’obbligazione esige un rapporto causale immediato e diretto fra inadempimento e danno. Questa limitazione – normativamente prevista nell’art. 1223 c.c. – è fondata sulla necessità di limitare l’estensione temporale e spaziale degli effetti degli eventi illeciti ed è orientata, perciò ad escludere dalla connessione giuridicamente rilevante ogni conseguenza dell’inadempimento che non sia propriamente diretta ed immediata. È compito del giudice di merito accertare la materiale esistenza del rapporto che abbia i suddetti caratteri normativamente richiesti. (Omissis). Cass. civ. sez. lav. 21 aprile 2006, n. 9374

In tema di nesso di causalità ex art. 1223 c.c. tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota, salvo il temperamento di cui all’art. 41, secondo comma, c.p. secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni; di guisa che, per escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe ugualmente verificato senza quell’antecedente. Cass. civ. sez. III, sez. III 13 settembre 2000, n. 12103

In tema di risarcibilità dei danni conseguiti da fatto illecito (o da inadempimento, nell’ipotesi di responsabilità contrattuale) il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, sempre che, nel momento in cui si produce l’evento causante, le conseguenze dannose di esso non appaiono del tutto inverosimili (combinazione della teoria della condicio sine qua non con la teoria della «causalità adeguata»). Cass. civ. sez. III, 9 maggio 2000, n. 5913

In tema di risarcimento del danno, il rapporto tra comportamento ed evento e tra questo e il danno muta a seconda che il danno sia un elemento della fattispecie o un suo effetto e deve conseguentemente distinguersi il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento affinché possa configurarsi a monte una responsabilità – come avviene in materia di illecito extracontrattuale – e il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’imputazione delle singole conseguenze dannose ed ha la funzione di delimitare a valle i confini della responsabilità – come avviene in tema di responsabilità contrattuale, ove il soggetto responsabile è di norma il contraente inadempiente e la sua individuazione non pone un problema di nesso di causalità tra comportamento ed evento dannoso – ; così, mentre l’accertamento della responsabilità è improntato alla ricerca del nesso di causalità, quello dell’estensione della responsabilità si fonda su un giudizio in termini ipotetici, coincidendo il danno risarcibile con la perdita e il mancato guadagno conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, delimitati in base al giudizio ipotetico sulla differenza tra situazione dannosa e situazione quale sarebbe stata se il fatto dannoso non si fosse verificato (Omissis). Cass. civ. sez. I, 15 ottobre 1999, n. 11629

L’ambito del danno risarcibile per inadempimento contrattuale è circoscritto dal criterio della cosiddetta regolarità causale, nel senso che sono risarcibili i danni diretti ed immediati, ed inoltre i danni mediati ed indiretti che rientrano nella serie delle conseguenze normali del fatto, in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di ordinaria diligenza; alla regola secondo cui in presenza di un evento dannoso tutti gli antecedenti senza i quali esso non si sarebbe verificato debbono essere considerati come sue cause (abbiano essi agito in via diretta e prossima ovvero in via indiretta e remota) fa eccezione il principio di causalità efficiente, in base al quale la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti. L’accertamento di tale nesso di causalità è riservato al giudice del merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi. Cass. civ. sez. lav. 6 marzo 1997, n. 2009

Il danno derivante dalla perdita della capacità di lavoro e di guadagno deve essere liquidato sommando e rivalutando i redditi già perduti dalla vittima tra il momento del fatto illecito e quello della liquidazione, nonché attraverso il metodo della capitalizzazione e, cioè, moltiplicando i redditi futuri perduti per un adeguato coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della liquidazione. Se il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al predetto coefficiente di capitalizzazione. Qualora la liquidazione avvenga prima del raggiungimento dell’età lavorativa, la capitalizzazione deve essere operata in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento del presumibile ingresso nel mondo del lavoro oppure in base ad un coefficiente corrispondente all’età del danneggiato al tempo della liquidazione, ma in questo caso previo abbattimento del risultato applicando il coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione. Cass. civ. sez. III, 12 aprile 2018, n. 9048

Il danno patrimoniale futuro derivante dalla perdita della capacità di lavoro e di guadagno non può essere liquidato semplicemente moltiplicando il reddito mensile perduto per il numero di mesi per i quali la vittima avrebbe presumibilmente svolto attività lavorativa, perché tale criterio è matematicamente – prima ancora che giuridicamente – scorretto. Il danno in esame va, invece, correttamente liquidato attraverso il metodo della capitalizzazione, e cioè moltiplicando il reddito perduto (espresso in moneta rivalutata al momento della liquidazione) per un adeguato coefciente di capitalizzazione, perché soltanto tale metodo consente di tenere debito conto del c.d. “montante di anticipazione”, e cioè del vantaggio realizzato dal creditore nel percepire oggi una somma che egli avrebbe concretamente perduto solo in futuro. Cass. civ. sez. III, 16 marzo 2012, n. 4252

La liquidazione del danno patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro e di guadagno non può costituire un’automatica conseguenza dell’accertata esistenza di lesioni personali, ma esige che sia verificata la attuale o prevedibile incidenza dei postumi sulla capacità di lavoro, anche generica, della vittima. Fine consegue che quando detti postumi sono di lieve entità o, comunque, manchino elementi concreti dai quali desumere una incidenza della lesione sulla attività di lavoro attuale o futura del soggetto leso, vanno escluse l’esistenza e la risarcibilità di qualsiasi danno da riduzione della capacità lavorativa, mentre va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) idoneo a cogliere, nella sua totalità, il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-sica. Cass. civ. sez. III, 24 febbraio 2011, n. n. 4493

La sussistenza di un danno patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro e di guadagno, in conseguenza di lesioni personali, non può essere esclusa per il solo fatto che i redditi del danneggiato dopo il sinistro non si siano ridotti, in quanto il giudice deve altresì accertare se le residue energie lavorative della vittima, pur consentendole di conservare al momento il reddito pregresso, comportino peruna maggiore usura, e di conseguenza rendano verosimile un’anticipata cessazione dell’attività lavorativa, ovvero precludano alla vittima la possibilità di svolgere attività più remunerative. Cass. civ. sez. III, 19 marzo 2009, n. 6658

Il danno patrimoniale futuro, nel caso di fatto illecito lesivo della persona, è da valutare su base prognostica ed il danneggiato, tra le prove, può avvalersi anche delle presunzioni semplici. Pertanto, provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità (cosiddette «micropermanenti» le quali non producono danno patrimoniale ma costituiscono mere componenti del danno biologico), è possibile presumersi che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura – non necessariamente in modo proporzionale – qualora la vittima già svolga un’attività o presumibilmente la svolgerà. In quanto prova presuntiva essa potrà essere superata dalla prova contraria che, nonostante la riduzione della capacità di lavoro specifico, non vi è stata alcuna riduzione della capacità di guadagno e che, quindi, non è venuto a configurarsi in concreto alcun danno patrimoniale. Cass. civ. sez. III, 25 gennaio 2008, n. 1690

Nella liquidazione del danno patrimoniale da invalidità permanente di lavoratori dipendenti, occorre prendere in considerazione il reddito percepito in concreto e corrispondente alle competenze effettive al netto delle ritenute e degli emolumenti straordinari. Qualora per la liquidazione si adotti il sistema della capitalizzazione anticipata, che fa conseguire il risarcimento in anticipo sulla data in cui si verificherebbe il danno reale (nella specie dei congiunti della vittima), gli interessi devono decorrere dal momento della liquidazione e non dall’illecito. Cass. civ. sez. III, 28 marzo 2001, n. 4508

In caso di danno alla persona, per stabilire se questo rilevi anche a titolo di danno patrimoniale si deve accertare se sia verificata ovvero se possa verificarsi in futuro una diminuzione della capacità lavorativa. Pertanto l’onere della prova ex art. 2697 c.c. del lucro cessante futuro attiene agli indici di valutazione preventiva e non alla effettiva verificazione del danno che sarebbe impossibile provare. Cass. civ. sez. III, 3 dicembre 1997, n. 12248

In tema di liquidazione del danno da lucro cessante causato da invalidità permanente deve farsi riferimento al solo reddito di lavoro che è in diretto ed immediato rapporto di produzione rispetto all’attività lavorativa del danneggiato. Conseguentemente, quando il reddito di lavoro si presenti confuso con il reddito di capitale, come nel caso di reddito di impresa, questo deve essere decurtato di una somma corrispondente alla remunerazione del capitale impiegato. Cass. civ. sez. III, 24 maggio 1993, n. 5832

Il danno per inabilità permanente non coincide automaticamente con la proporzionale riduzione del reddito di lavoro percepito dal danneggiato ma deve essere in concreto accertato, anche per via presuntiva, sulla base della differenza tra i redditi che il danneggiato, in relazione alla sua qualifica ed attività, avrebbe potuto percepire e quelli a cui deve presumersi che rimarrà ancorato a causa della menomazione riportata, escludendosi ogni confusione tra questo danno, che è strettamente legato alla effettiva riduzione della capacità di guadagno, con le altre forme di danno, quale quello biologico, nella cui valutazione assume preminente rilievo la gravità della inabilità. Cass. civ. sez. III, 26 ottobre 1992, n. 11616

Nella liquidazione del danno da atto illecito dal quale sia derivata l’invalidità temporanea del danneggiato, occorre tener conto, nel calcolo del lucro cessante, della retribuzione globale in precedenza percepita dal soggetto, comprensiva di ogni somma, a qualsiasi titolo goduto, e quindi ricomprendendo in essa anche gli elementi del reddito variabili e percepiti solo per consuetudine o per il buon volere di terzi, come ad esempio le mance, restando ai fini della relativa quantificazione al giudice il potere di liquidazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c. Cass. civ. sez. I, 25 settembre 1990, n. 9702

Nel caso in cui un fatto illecito abbia causato l’invalidità permanente di un piccolo imprenditore che, oltre ad organizzare e dirigere la sua impresa, vi lavori personalmente, l’indennizzo dovuto a titolo di risarcimento del danno non va calcolato sulla sola base del reddito di lavoro, cioè del reddito che sarebbe prodotto direttamente ed autonomamente dal lavoro personale dell’imprenditore, con esclusione del reddito che sarebbe prodotto direttamente ed autonomamente dal capitale investito nell’impresa, bensì deve a base del calcolo essere posto l’unitario reddito dell’impresa, nella quota corrispondente al grado di invalidità permanente. Cass. civ. sez. III, 11 giugno 1990, n. 5675

L’incidenza dell’invalidità sul reddito deve essere valutata in relazione alle peculiari circostanze del caso concreto, di tal che un determinato coefficiente di riduzione della capacità lavorativa non importa senz’altro una proporzionale riduzione aritmetica del reddito, concretamente accertato, della persona offesa, dovendo tale riduzione essere stabilita dal giudice con riguardo alla natura dell’inabilità ed alla specie di attività esercitata. Cass. civ. sez. III, 28 novembre 1988, n. 6403

Il danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-sica, può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto. Fine consegue che ove l’elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente probabile, se non certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno ad essa conseguente, il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale occorsa alla vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa, pur in assenza di concreti riscontri dai quali desumere i suddetti elementi. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia con la quale il giudice di merito aveva ritenuto insussistente la prova del danno alla capacità di produrre reddito di un minore in età scolare che aveva subìto gravissime lesioni alla nascita dalle quali gli era derivata un’invalidità permanente pari al 52%). Cass. civ. sez. III, 15 maggio 2018, n. 11750

L’accertamento, in un minore in età infantile, che lo stato di invalidità permanente (nella specie, sordità causata da intempestiva diagnosi di meningite con esiti invalidanti stimati nel 30 per cento) sia rimediabile mediante applicazione di protesi, non è ragione sufficiente ad escludere – integrando una violazione dell’art. 1223 c.c. – il danno futuro da riduzione della capacità lavorativa del minore, attesa l’incidenza negativa sull’esplicazione di qualsiasi attività di lavoro derivante dalla costante percezione e consapevolezza della necessità di sopperire al deficit. Cass. civ. sez. III, 18 settembre 2015, n. 18305

In tema di risarcimento del danno alla persona, la mancanza di un reddito al momento dell’infortunio per essere il soggetto leso disoccupato, può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato alla invalidità permanente che proiettandosi per il futuro – verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima, al momento in cui questa inizierà una attività remunerata, salvo l’ipotesi che si tratti di disoccupazione volontaria, ovvero di un consapevole rifiuto dell’attività lavorativa. Cass. civ. sez. III, 13 luglio 2010, n. 16396

In tema di risarcimento del danno alla persona, posto che le lesioni non irrilevanti della integrità personale di un minore di età, non svolgente attività lavorativa, sono presumibilmente destinate a produrre un danno patrimoniale futuro, in termini di riduzione della sua futura capacità di guadagno, al fine di determinare il relativo danno il giudice deve tener conto non soltanto della rilevanza quantitativa delle lesioni, in termini di percentuale di invalidità medicalmente accertata, ma anche della loro natura e qualità rispetto alle presumibili opportunità di lavoro che si presenteranno al danneggiato, avuto riguardo alle sue peculiari tendenze ed attitudini -, dell’orientamento eventualmente manifestato dal danneggiato medesimo verso una determinata attività redditizia, dell’educazione dallo stesso ricevuta dalla famiglia e della posizione sociale ed economica di quest’ultima, nonché della situazione del mercato del lavoro e, inne, di ogni altra circostanza oggettivamente o soggettivamente rilevante, ferma restando la possibilità per colui che è chiamato a rispondere di dette lesioni di dimostrare, in forza degli stessi anzidetti criteri, che il minore non risentirà alcun danno dal quel particolare tipo di invalidità. Cass. civ. sez. III, 15 luglio 2008, n. 19445

Il danno patrimoniale da lucro cessante, per un soggetto privo di reddito al quale siano residuati postumi permanenti in conseguenza di un fatto illecito altrui, configura un danno futuro, da valutare con criteri probabilistici, in via presuntiva, e con equo apprezzamento del caso concreto. Cass. civ. sez. III, 25 maggio 2007, n. 12247

.. nell’ipotesi di illecito determinante l’invalidità permanente di soggetto privo di reddito, in quanto non svolga attività lavorativa e frequenti un corso di studi, il danno da risarcire consiste nel minor guadagno che l’interessato realizzerà in futuro a causa della menomazione rispetto a quello che avrebbe percepito se la sua capacità lavorativa non fosse stata menomata ; la relativa liquidazione può essere compiuta per mezzo di presunzioni, considerando il tipo di attività che il soggetto svolgerà in futuro secondo un criterio probabilistico, tenuto conto delle possibili scelte ed occasioni che, secondo l’id quod plerumque accidit, si offrono in relazione al livello di studi conseguito e all’ambiente familiare e sociale di riferimento. Cass. civ. sez. III, 13 gennaio 2005, n. 564

In tema di risarcimento del danno alla persona subito da un minore (nel caso di specie, trattavasi di danno verificatosi al momento del parto), la determinazione dell’ammontare del danno da lucro cessante va effettuata mediante una previsione di futuro guadagno per l’intero preventivabile arco della vita lavorativa, tenendo conto della prevedibile riduzione delle possibili attività lavorative esercitabili e dei guadagni ipotizzabili; nel compiere tale previsione non è corretto equiparare le prospettive lavorative future dei gli all’attività svolta dai genitori, in quanto ogni individuo può aspirare alla realizzazione di obiettivi socialmente ed economicamente più favorevoli rispetto a quelli raggiunti dalle generazioni precedenti. Cass. civ. sez. III, 22 luglio 2004, n. 13634

Il danno patrimoniale da lucro cessante, per un soggetto privo di reddito e a cui siano residuati postumi permanenti in conseguenza di un fatto illecito altrui, configura un danno futuro, da valutare con criteri probabilistici, in via presuntiva, e con equo apprezzamento del caso concreto. Pertanto se occorre valutare il lucro cessante di un minore menomato permanentemente e non sia possibile prevedere la sua futura attività lavorativa in base agli studi compiuti o alle sue inclinazioni, rapportati alla posizione economico-sociale della famiglia, non sussiste nessun vizio logico-giuridico della motivazione del giudice di merito che per valutare il reddito futuro di detto minore adotti come parametro di riferimento quello di uno dei genitori, presumendo che il figlio eserciterà la medesima professione del genitore. Cass. civ. sez. III, 2 ottobre 2003, n. 14678

In materia di risarcimento del danno causato da fatto illecito ad un minore che non svolga attività lavorativa, il giudice deve procedere alla liquidazione del danno da lucro cessante facendo ricorso alla presunzione, in base al tipo di attività lavorativa che presumibilmente il minore effettuerà o avrebbe effettuato in futuro – da accertarsi in relazione, ad esempio, agli studi compiuti, alle inclinazioni manifestate, all’attività lavorativa e alla posizione economico-sociale della famiglia –; in mancanza di tali elementi, il giudice può far riferimento a un reddito presuntivo, quale quello di cui all’articolo 4 della legge n. 39 del 1977, o al reddito medio di un lavoratore dipendente, motivando, in quest’ultimo caso, in ordine agli elementi tenuti presenti nella fissazione di tale reddito. Cass. civ. sez. III, 16 febbraio 2001, n. 2335

La liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale. Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell’art. 137, cod. ass. può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell’infortunio godeva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato. Cass. civ. sez. VI, 4 maggio 2016, n. 8896

In tema di risarcimento danni da lucro cessante conseguente ad un sinistro stradale, le dichiarazioni dei redditi hanno efficacia probatoria privilegiata, ai sensi dell’art. 4 della l. 39 del 1977, con riferimento a tutti i redditi da esse desumibili, dovendosi pertanto considerare sia quelli derivanti dall’attività svolta dal danneggiato come singolo professionista, che quelli derivanti dall’attività svolta in forma associata. Cass. civ. sez. III, 31 agosto 2015, n. 17294

Quando sia certo che la vittima di lesioni personali, causate da un sinistro stradale, abbia perduto la capacità di guadagno, il conseguente danno patrimoniale può essere liquidato dal giudice ponendo a base del calcolo il triplo della pensione sociale anche quando il danneggiato non abbia provato l’entità del reddito perduto, costituendo tale criterio una soglia minima del risarcimento. Cass. civ. sez. III, 15 maggio 2012, n. 7531

In tema di danno patrimoniale da incapacità lavorativa, la relativa liquidazione non può essere fatta in modo automatico in base ai criteri dettati dall’art. 4 della legge 26 febbraio 1977, n. 39, trattandosi di norma che non comporta alcun automatismo di calcolo, ma si limita ad indicare alcuni criteri di quantificazione del danno sul presupposto della prova relativa, che comunque incombe al danneggiato e che può essere data anche in via presuntiva, purché sia certa la riduzione di capacità di lavoro specifica. Cass. civ. sez. III, 14 novembre 2011, n. 23761

In materia di risarcimento dei danni a seguito di incidente stradale, una volta ritenuta provata l’attività lavorativa svolta dal danneggiato e la compromissione della medesima (quindi l’an debeatur), in mancanza di una prova specifica del di lui reddito, si può correttamente fare ricorso ai criteri di quantificazione del danno indicati dall’art. 4 della legge 26 febbraio 1977 n. 39. (Omissis). Cass. civ. sez. III, 6 agosto 2007, n. 17179

In tema di risarcimento del danno derivante dalla circolazione stradale, la norma di cui all’art. 4 del D.L. 23 dicembre 1976 n. 857 – secondo la quale il reddito che occorre considerare agli effetti del risarcimento non può comunque essere inferiore a tre volte l’ammontare annuo della pensione sociale – si applica soltanto all’ipotesi dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, e non anche nel rapporto tra danneggiato e danneggiante, che è indipendente dal contratto assicurativo. Conseguentemente nel rapporto tra il responsabile e il danneggiato il danno futuro va collegato all’invalidità permanente va liquidato in via equitativa, a norma degli artt. 2056 e 1226, essendo fondato su situazioni future ed ipotetiche, conoscibili soltanto come probabili o possibili. Peraltro, anche nell’ambito di tale valutazione equitativa, il giudice può assumere come criterio di orientamento quello del triplo della pensione sociale di cui alla disposizione indicata. Cass. civ. sez. III, 18 maggio 1999, n. 4801

Nella liquidazione del danno alla persona per responsabilità civile derivante dalla guida di autoveicoli a motore e dei natanti, allorquando la componente del reddito dev’essere tenuta presente nella liquidazione del danno da lucro cessante, il reddito si determina con i criteri stabiliti dall’art. 4, comma primo del D.L. 23 dicembre 1976, n. 857, conv. nella legge 26 febbraio 1977, n. 39, e le possibili correzioni della liquidazione attraverso il criterio equitativo debbono essere convenientemente motivate. Cass. civ. sez. III, 12 ottobre 1998, n. 10088

In tema di liquidazione del danno patrimoniale futuro derivante dalla diminuita capacità di guadagno, l’art. 4 del D.L. n. 857 del 1976, convertito in legge n. 39 del 1977, non richiede che il reddito desumibile dal modello 740 debba essere altrimenti avvalorato, né che, ai fini della menzionata liquidazione, sia necessaria la dichiarazione dei redditi per pidi un anno, in quanto il riferimento al triennio, contenuto nel primo comma del menzionato articolo, rileva al solo fine di stabilire, nei casi di redditi annuali tra loro differenti, quello che deve costituire la base per la quantificazione del risarcimento. (Omissis). Cass. civ. sez. III, 1 agosto 1996, n. 6941

In tema di risarcimento danni alla persona derivanti dalla circolazione stradale, il criterio di liquidazione previsto dall’art. 4 del D.L. 23 dicembre 1976, n. 857, convertito nella L. 26 febbraio 1977, n. 39, è applicabile nei soli casi in cui il danneggiato sia percettore di reddito di lavoro, poiché l’inciso «in tutti gli altri casi», di cui al comma 3 del citato articolo, va riferito alle ipotesi in cui il reddito da lavoro non risulti in base ai criteri indicati nei due commi precedenti e non anche nelle ipotesi in cui il soggetto sia privo di un reddito. Cass. civ. sez. III, 1 dicembre 1994, n. 10269

In tema di determinazione del reddito da considerare ai fini del risarcimento del danno da inabilità permanente, l’art. 4 del D.L. n. 857 del 1976 – convertito in legge n. 39 del 1977 –, stabilendo, dopo avere indicato (commi primi e secondo) i criteri da adottarsi con riguardo ai casi di lavoro, rispettivamente, autonomo e subordinato, allorché stabilisce (terzo comma) che «in tutti gli altri casi» il reddito da considerare ai detti fini non può essere inferiore a tre volte l’ammontare annuo della pensione sociale, ricomprende in tale ultima previsione non solo l’ipotesi in cui l’invalidità permanente ed il conseguente danno futuro sia stato riportato da soggetti che non siano lavoratori dipendenti o autonomi, ma anche quella, più generale, in cui il danno futuro incida su soggetti (nella specie, un lavoratore autonomo) attualmente privi di reddito, in relazioni a particolari contingenze, ma potenzialmente idonei a produrlo. Cass. civ. sez. III, 10 giugno 1994, n. 5669

In materia di danni derivanti dalla circolazione di veicoli, l’art. 4, L. 26 febbraio 1977, 39, stabilendo che per valutare l’incidenza dell’inabilità temporanea e dell’invalidità permanente su un reddito di lavoro si debba avere riguardo a quello risultante dalle denunce scali, qualora esistenti, preclude, in presenza di questa risultanza, una liquidazione equitativa del danno (da lucro cessante), tale, cioè, che, accertata la misura dell’incapacità lavorativa, prescinda dalla assunzione di detto reddito – sul rilievo della continuità della sua percezione nel corso di rapporto di lavoro subordinato – a parametro per la traduzione in termini economici dell’incapacità stessa, potendo, invece, la circostanza di siffatta continuità di percezione, nell’assenza di un obbligo del giudice di applicare le tabelle di capitalizzazione delle rendite vitalizie approvate con R.D. n. 1403 del 1922, rilevare soltanto ai fini di una valutazione equitativa dell’incidenza della ridotta capacità sica sulla capacità di guadagno e quale indice – secondo l’id quod plerumque accidit – di modestia dell’incidenza medesima, nonché della prevalente influenza di detta riduzione sulla percezione di speciali compensi per prestazioni più intense del normale o sull’ulteriore sviluppo di carriera o su una possibile collocazione anticipata a riposo o su alternative possibilità di lavoro. Cass. civ. sez. III, 7 marzo 1994, n. 2203

In tema di risarcimento del danno da invalidità temporanea o permanente causata dalla circolazione di veicoli a motore, l’art. 4 D.L. 23 dicembre 1976, n. 857, conv. in L. 26 febbraio 1977, n. 39, assume le risultanze delle dichiarazioni scali dell’ultimo triennio antecedente al sinistro a parametro base cui commisurare l’incidenza di detta invalidità sui guadagni del lavoratore danneggiato, salva la prova contraria relativa ad un reddito diverso, che può essere fornita non solo dall’assicuratore del responsabile del danno, ma anche dal lavoratore danneggiato per dimostrare la non signicatività del reddito dichiarato a fronte di quello da lui prodotto nel medesimo periodo di tempo con la sua attività lavorativa remunerata. Conseguentemente nel caso in cui si debba quantificare il lucro cessante sofferto da un libero professionista per effetto della lesione personale subita, vanno presi in considerazione, per individuare la capacità di guadagno, anche gli incrementi patrimoniali ritraibili con ragionevole previsione dal lavoro svolto, pur se non ancora introitati al tempo del sinistro o nel triennio precedente, per naturali vicende collegate al particolare tipo di attività. Cass. civ. sez. III, 25 febbraio 1994, n. 1936

Nella liquidazione del danno da invalidità permanente deve aversi riguardo, per la determinazione del pregiudizio patrimoniale subito dal danneggiato, agli emolumenti che a questi spettano in concreto e perciò alle competenze effettive al netto delle ritenute, avendo la L. 26 febbraio 1977, n. 39 eliminato, ai fini del risarcimento del danno, ogni riferimento per il lavoro dipendente al reddito lordo. Cass. civ. sez. III, 8 luglio 1993, n. 7494

In tema di liquidazione del danno patrimoniale, il risarcimento per il danno costituito dalla perdita del guadagno subito deve comprendere il periodo di invalidità temporanea in cui nessuna attività lavorativa ha potuto svolgersi dal danneggiato ed il successivo periodo di invalidità permanente. Fine consegue che l’inizio del calcolo del danno da invalidità permanente, che segue alla diminuzione della capacità di lavoro impiegata in un’attività di lavoro determinata, va individuato con riferimento al momento della cessazione dell’invalidità temporanea, che deve viceversa essere liquidata autonomamente, in modo tale da condurre ad un risarcimento che possa essere considerato comprensivo di ambedue le voci. Cass. civ. sez. III, 19 agosto 2003, n. 12121

Qualora un intervento chirurgico abbia esito negativo, rendendo immediata anziché allontanare nel tempo o evitare una menomazione, e tale esito sia imputabile alla responsabilità del medico (nella specie per non avere correttamente informato l’interessato circa i rischi dell’intervento stesso), la compromissione arrecata alla salute del paziente va identificata, ai fini della liquidazione dei danni, tenendo presente il momento in cui la stessa si sarebbe prodotta naturalmente. Cass. civ. sez. lav. 12 luglio 1999, n. 734

Il danno risarcibile in caso di invalidità non concerne la incapacità lavorativa in sé, ma la conseguenza del mancato guadagno e, nel caso di invalidità permanente, la riduzione della capacità di guadagno; fine consegue che, trattandosi di debito di valore (in quanto volto a reintegrare il patrimonio del danneggiato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se non fosse avvenuto l’evento dannoso), la liquidazione deve essere adeguata ai valori monetari del momento della pronuncia giudiziale definitiva, tenendosi conto della sopravvenuta svalutazione monetaria, mentre la decorrenza degli interessi compensativi va fissata nel momento in cui il danno si è verificato che, in tema di invalidità permanente, deve essere individuato non nella data dell’incidente ma nel momento in cui è cessata la invalidità temporanea e si sono consolidati i postumi a carattere permanente (nella specie, conseguenti a trauma cranico) con le conseguenze dannose derivatene. Cass. civ. sez. III, 22 giugno 1987, n. 5480

La determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno da illecito extra contrattuale va effettuata con riferimento all’epoca della liquidazione, poiché solo in tale momento il creditore può realizzare il proprio interesse leso e conseguire la reintegrazione del pregiudizio subito dal suo patrimonio. Pertanto, al fine della determinazione del danno sofferto per invalidità permanente da un lavoratore dipendente, il salario o lo stipendio da assumere a base del calcolo non è quello corrisposto al momento del sinistro, bensì quello percepito (o normalmente percepibile) al tempo della liquidazione, dovendo, peraltro, il giudice tenere anche conto di guadagni che in futuro il danneggiato avrebbe potuto realizzare secondo il normale svolgimento della vita lavorativa. Cass. civ. sez. lav. 11 agosto 1983, n. 5351

Il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’artt. 1223 c.c. deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano. Cass. civ. sez. III, 28 aprile 2017, n. 10499

In tema di danno cd. differenziale, il giudice di merito deve procedere d’ufficio allo scomputo, dall’ammontare liquidato a detto titolo, dell’importo della rendita INAIL, anche se l’istituto assicuratore non abbia, in concreto, provveduto all’indennizzo, trattandosi di questione attinente agli elementi costitutivi della domanda, in quanto l’art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, ai commi 6, 7 e 8, fa riferimento a rendita “liquidata a norma”, implicando, quindi, la sola liquidazione, un’operazione contabile astratta, che qualsiasi interprete può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Diversamente opinando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare, né a lui, perché, anche in caso di responsabilità penale, il risarcimento gli sarebbe dovuto solo per l’eccedenza, né all’INAIL, che puagire in regresso solo per le somme versate; inoltre, la mancata liquidazione dell’indennizzo potrebbe essere dovuta all’inerzia del lavoratore, che non abbia denunciato l’infortunio, o la malattia, o abbia lasciato prescrivere l’azione. Cass. civ. sez. L, 31 maggio 2017, n. 13819

Il credito risarcitorio residuo spettante a chi, avendo patito una lesione della salute, abbia ottenuto dall’Inail un indennizzo del danno biologico ai sensi del d.l.vo n. 38 del 2000, va liquidato non già sottraendo dal grado percentuale di invalidità permanente, individuato sulla base dei criteri civilistici, quello determinato dall’Inail coi criteri dell’assicurazione sociale, bensì, dapprima, monetizzando l’uno e l’altro grado di invalidità, e successivamente sottraendo il valore capitale dell’indennizzo Inail dal credito risarcitorio aquiliano. Cass. civ. sez. VI, 12 dicembre 2016, n. 25327

Il danno patrimoniale derivante al congiunto dalla perdita della fonte di reddito collegata all’attività lavorativa della vittima assume natura di danno emergente con riguardo al periodo intercorrente tra la data del decesso e quella della liquidazione giudiziale mentre si configura come danno futuro e, dunque, come lucro cessante, con riguardo al periodo successivo alla liquidazione medesima; fine consegue che, ai fini della liquidazione, il giudice del merito può utilizzare il criterio di capitalizzazione di cui al r.d. 1403 del 1922 soltanto in ordine al danno successivo alla decisione, avuto riguardo al presumibile periodo di protrazione della capacità della vittima di produrre il reddito di cui trattasi, mentre, con riguardo al pregiudizio verificatosi sino al momento della decisione, deve operarsi il cumulo di rivalutazione ed interessi compensativi. Cass. civ. sez. III, 30 aprile 2018, n. 10321

La liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante, patito dalla moglie e dal figlio di persona deceduta per colpa altrui, e consistente nella perdita delle elargizioni erogate loro dal defunto, se avviene in forma di capitale e non di rendita, va compiuta per la moglie moltiplicando il reddito perduto dalla vittima per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie corrispondente all’età del più giovane tra i due; per il figlio in base a un coefficiente di capitalizzazione di una rendita temporanea corrispondente al numero presumibile di anni per i quali si sarebbe protratto il sussidio paterno; nell’uno e nell’altro caso il reddito da porre a base del calcolo deve comunque essere equitativamente aumentato per tenere conto dei presumibili incrementi reddituali che il lavoratore avrebbe ottenuto se fosse rimasto in vita e contemporaneamente ridotto dell’importo pari alla quota di reddito che la vittima avrebbe presumibilmente destinato a sé, al carico scale e alle spese per la produzione del reddito. Cass. civ. sez. VI-III, 16 marzo 2018, n. 6619

La liquidazione del danno patrimoniale da perdita delle contribuzioni di persona defunta deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito della vittima, al netto sia di tutte le spese per la produzione dello stesso prudentemente stimabili, sia del prelievo scale. Cass. civ. sez. III, 28 giugno 2012, n. 10853

L’art. 4 del D.L. n. 857/1976, come modificato dalla legge n. 39/1977 – secondo il quale, nel caso di danno alle persone, quando agli effetti del risarcimento debba considerarsi l’incidenza dell’inabilità temporanea o dell’invalidità permanente sul reddito di lavoro, tale reddito non può essere inferiore al triplo dell’ammontare annuo della pensione sociale – si applica quando si tratta di liquidare il danno in favore della persona che lo ha subìto in occasione dell’incidente stradale, mentre si deve escludere che la norma possa essere estesa analogicamente alla liquidazione del danno consistente nella morte della persona che è rimasta coinvolta nell’incidente ostandovi la natura eccezionale di essa (vedi Corte Cost. 24 ottobre 1995 n. 445). Peraltro, l’inapplicabilità della norma in quanto tale non implica che il giudice non possa far riferimento al criterio stabilito dalla norma medesima nella liquidazione equitativa del danno ex articoli 2055 e 1226 c.c. Cass. civ. sez. III, 16 febbraio 2006, n. 3436

Il criterio legislativo del triplo della pensione sociale di cui all’art. 4 del D.L. n. 587 del 1976 conv. in legge n. 39 del 1977, deve ritenersi applicabile, in mancanza di prova di un reddito superiore, anche in tema di risarcimento del danno futuro sofferto dai familiari per la morte di un congiunto e, quindi, tra l’altro, nei casi di privazione della legittima aspettativa di un coniuge o di un genitore ad un contributo da parte, rispettivamente, dell’altro coniuge o del figlio prematuramente scomparso. Cass. civ. sez. III, 18 dicembre 1998, n. 12686

In una causa di risarcimento danni da incidente stradale, le dichiarazioni dei redditi hanno efficacia probatoria privilegiata, ai sensi dell’art. 4 della legge 26 febbraio 1977, n. 39, soltanto quando ricorrano due condizioni: a) oggetto del giudizio sia l’azione diretta promossa dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore della r.c.a. del responsabile, ex art. 18 della legge n. 990 del 1969; b) il danno che si intende provare con la dichiarazione dei redditi sia costituito da una contrazione del reddito conseguente ad invalidità permanente. Nel caso in cui – come nella fattispecie in esame – il danno di cui si chieda il risarcimento sia costituito dalla riduzione delle entrate conseguita alla morte di un congiunto, le risultanze delle dichiarazioni dei redditi sono liberamente valutabili dal giudice, la cui pronuncia sul punto non è sindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata. Cass. civ. sez. III, 14 luglio 2003, n. 11007

Quando la persona danneggiata muoia nel corso del giudizio di liquidazione del danno per causa sopravvenuta ed indipendente dal fatto lesivo di cui il convenuto è chiamato a rispondere, la determinazione del danno biologico e patrimoniale in senso stretto che gli eredi del defunto richiedano iure successionis e non iure proprio va effettuata non più con riferimento alla durata probabile della vita futura del soggetto, ma alla sua durata effettiva. Ci peraltro, non comporta che sia ricorribile per cassazione la sentenza pronunciata sulla base del criterio probabilistico per tale specifico motivo, allorché la morte del danneggiato, intervenuta in epoca successiva alla precisazione delle conclusioni, sia stata ignota al giudice, non ricorrendo, in tale ipotesi, né un errore in iudicando, né un errore in procedendo, e non essendo, pertanto, configurabile un vizio della sentenza per alcuno dei motivi tassativamente indicati dall’art. 360 c.p.c. Cass. civ. sez. III, 20 gennaio 1999, n. 489

Il danno patrimoniale subìto dai familiari di una casalinga deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito, e consistente nella perdita delle prestazioni domestiche erogate dalla propria congiunta, può essere legittimamente liquidato facendo riferimento non al reddito di una collaboratrice domestica, ma al triplo della pensione sociale. Cass. civ. sez. III, 10 settembre 1998, n. 8970

Nel caso in cui due coniugi decedano, per effetto dell’altrui atto illecito, la ideale quota di reddito che ciascuno di essi destinava all’altro può essere ricompresa nel calcolo del danno patrimoniale subìto dai gli soltanto ove il giudice possa ritenere, anche in base a presunzioni semplici, che tale quota – ove uno dei coniugi fosse sopravvissuto – sarebbe stata destinata a pro dei familiari superstiti. Cass. civ. sez. III, 10 settembre 1998, n. 8970

La detrazione, in sede di liquidazione del danno dovuto ai congiunti della vittima di un infortunio sul lavoro colposo, del valore della rendita corrisposta dall’Inail, deve avvenire, per non tradursi in un ristoro parziale o al contrario in un ingiustificato arricchimento, sulla base del confronto di termini omogenei, quali, da una parte, l’ammontare del danno determinato alla data in cui si è verificato e, dall’altra, il valore capitalizzato alla stessa data della rendita; con la conseguenza che rivalutazione ed interessi legali vanno applicati, da tale data al saldo, sulla sola differenza eventualmente risultante a favore dei danneggiati. Cass. civ. sez. lav. 21 agosto 1996, n. 7694

Nella liquidazione del risarcimento dei danni patrimoniali derivanti ai congiunti dalla morte di una persona è corretto un metodo di calcolo che stabilisca il reddito netto su cui determinare il danno futuro subito dagli eredi sulla base della detrazione dal reddito sia del relativo carico scale, sia della quota sibi (parte del reddito che il defunto avrebbe speso per sé), la quale ben può essere quantificata come percentuale del reddito complessivo al lordo delle imposte. Né la detrazione della quota relativa all’imposta sul reddito è contestabile sotto il profilo della conseguenziale sottoposizione degli interessati (sia pure solo da un punto di vista contabile) ad una doppia falcidia scale, dato che l’art. 6, comma 2, D.P.R. n. 917 del 1986, nel dettare il principio che i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti, fa espressa eccezione per l’ipotesi in cui detti cespiti siano acquisiti in dipendenza di invalidità permanente o di morte. Cass. civ. sez. III, 21 novembre 1995, n. 12020

In sede di liquidazione del risarcimento dei danni subiti dai congiunti di un professionista in conseguenza della sua morte, non è censurabile il ricorso da parte del giudice di merito al criterio «per competenza», anziché a quello «di cassa», nella determinazione del reddito goduto dal defunto, giustificato con l’esigenza di accertare l’effettiva capacità di guadagno del medesimo e con rilievo che la natura non straordinaria degli incarichi professionali presi in considerazione assicura in riferimento ad un reddito ordinario medio. Cass. civ. sez. III, 21 novembre 1995, n. 12020

In tema di risarcimento del danno patrimoniale del genitore per la uccisione del figlio minore, che all’epoca della morte non abbia ancora iniziato a lavorare, se la sentenza, che riconosce dovuto il risarcimento, sopravviene dopo la data a partire dalla quale accerta che i genitori avrebbero cominciato a godere dell’apporto economico del figlio, il capitale corrispondente alla rendita sostitutiva, nel cui ammontare venga determinato il danno alla data anzidetta, non va scontato all’epoca della morte e aumentato, a decorrere dalla stessa epoca, di rivalutazione ed interessi; va bensì solo adeguato alla data della sentenza per tener conto delle conseguenze pregiudizievoli risentite dal danneggiato in conseguenza del ritardo con cui il risarcimento è liquidato, rispetto alla data a partire dalla quale il danneggiante avrebbe dovuto iniziare a corrispondere la rendita sostitutiva. Cass. civ. sez. III, 7 aprile 1995, n. 4051

Nella liquidazione del danno futuro per la morte di un congiunto che con certezza o con rilevante grado di probabilità avrebbe continuato ad elargire ai superstiti durevoli e costanti sovvenzioni, il giudice deve tenere conto non solo del reddito della vittima al momento del sinistro, ma anche dei probabili incrementi di guadagno dovuti, per gli impiegati, ad eventuali immissioni in ruolo, allo sviluppo della carriera ed ad altri consimili eventi che con prudente apprezzamento e sulla base dell’id quod plerumque accidit si sarebbero verificati. Cass. civ. sez. III, 6 ottobre 1994, n. 8177

La rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell’obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d’ufficio ed in grado di appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi compresi nell’originario “petitum” della domanda risarcitoria, ove non fine siano stati espressamente esclusi. Cass. civ. sez. III, 16 dicembre 2014, n. 26374

Con la sentenza definitiva che decide sulla liquidazione di un’obbligazione di valore, da effettuarsi in valori monetari correnti, si determina la conversione del debito di valore in debito di valuta con il riconoscimento da tale data degli interessi corrispettivi. Fine consegue che è preclusa l’ulteriore rivalutazione monetaria derivante dall’eventuale ritardo nell’esecuzione del giudicato, valendo, in tale ipotesi, i criteri previsti dalla legge per il debito di valuta. Cass. civ. sez. II, 14 aprile 2011, n. 8507

La parte adempiente che “chiede la risoluzione del contratto preliminare di compravendita per inadempimento del promittente venditore ha diritto sia alla restituzione della somma pagata in conto prezzo, in virtù dell’efficacia retroattiva della risoluzione, sia al risarcimento del danno, comprensivo anche del pregiudizio costituito dal deprezzamento della somma pagata, con la conseguenza che tale somma, pur essendo oggetto di una obbligazione pecuniaria, avendo per oggetto il prezzo corrisposto alla parte adempiente, deve essere restituita con la rivalutazione monetaria perché solo in tal modo quest’ultima parte è reintegrata nella posizione in cui era al momento della conclusione del contratto. Cass. civ. sez. III, 13 maggio 2004, n. 9091

La rivalutazione delle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno da invalidità permanente parziale, quando questa sia successiva ad un periodo di invalidità temporanea liquidata separatamente, decorre dal momento della cessazione dell’invalidità temporanea e non dal giorno dell’evento dannoso. Cass. civ. sez. III, 20 giugno 1996, n. 5680

Il principio secondo cui l’obbligazione risarcitoria configura debito di valore – con la conseguenza che il giudice deve tener conto, anche di ufficio, della svalutazione monetaria verificatasi no alla data della relativa decisione, in quanto l’integrale ed effettiva reintegrazione del patrimonio del danneggiato nella situazione del danneggiato in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’evento dannoso, alla quale il risarcimento è preordinato, può essere conseguita solo tenendo conto di tale svalutazione-opera anche quando si tratti di danni conseguenti ad inadempimento di obblighi che, sebbene nascenti da un contratto che comporta l’esecuzione di prestazioni pecuniarie, abbiano uno specifico contenuto ed una autonoma valenza attinenti ad un diverso facere ed a cosa diversa dal denaro, come l’obbligo dell’istituto di credito, col quale si intrattenga un rapporto di conto corrente, di consegnare i cosiddetti libretti di assegni esclusivamente al correntista o al soggetto contrattualmente legittimato a riceverli. Cass. civ. sez. III, 28 luglio 1994, 7079

Nella liquidazione dei debiti di valore il giudice deve tenere conto dell’eventuale diminuito potere di acquisto della moneta disponendo la relativa rivalutazione no alla data di pubblicazione della sentenza, che costituisce il momento in cui il credito dedotto in giudizio diviene liquido ed esigibile ed il cui correlativo debito si converte in debito di valuta, mentre non può tenere conto anche di eventi futuri ed ipotetici successivi alla pronuncia esecutiva, dato che il ritardo nella esecuzione di questa, concretando l’inadempimento di una obbligazione pecuniaria, può comportare, a norma dell’art. 1224 c.c. il diritto agli interessi ed al risarcimento del maggior danno, che è fondato su presupposti del tutto diversi da quelli della rivalutazione automatica del debito di valore. Cass. civ. sez. III, 26 ottobre 1992, n. 11616

In sede di legittimità non può essere proposta richiesta di ulteriore rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno in appello, in quanto la svalutazione monetaria incide sino alla data della liquidazione del danno e la relativa maggiorazione attiene ad un potere discrezionale del giudice del merito il cui esercizio comporta una indagine di fatto istituzionalmente preclusa alla Corte di cassazione. Cass. civ. sez. II, 10 marzo 1987, n. 2480

Il riconoscimento da parte del debitore della propria obbligazione di risarcimento del danno derivante da responsabilità contrattuale, precontrattuale o da atto illecito, non determina la trasformazione del corrispondente debito di valore in debito di valuta, con la conseguenza che il giudice del merito, nel procedere alla liquidazione del danno, deve tenere conto, anche d’ufficio, dell’intervenuta svalutazione della moneta. Cass. civ. sez. II, 20 gennaio 1986, n. 367

Il credito risarcitorio per lucro cessante, derivante dal mancato godimento di un bene protrattosi per una pluralità di anni, viene a maturare anno per anno, in relazione alla perdita dei corrispondenti redditi, e, pertanto, è suscettibile di rivalutazione monetaria, con applicazione poi degli interessi sulla somma rivalutata, solo con riferimento ed a partire da ciascuna annualità. Cass. civ. Sezioni Unite, 23 novembre 1985, n. 5814

L’obbligo del risarcimento del danno, sia contrattuale che extracontrattuale, tendendo alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato, ha natura di debito non di valuta, ma di valore, sicché il giudice, nella relativa quantificazione, deve tener conto, anche d’ufficio, e quindi indipendentemente da qualsiasi prova da parte del danneggiato stesso, della svalutazione monetaria sopravvenuta sino alla data della liquidazione. Cass. civ. sez. II, 9 agosto 1983, n. 5337

Poiché il risarcimento del danno da inadempienza contrattuale tende a ristabilire l’equilibrio economico turbato, mettendo il creditore nella stessa situazione economica nella quale si sarebbe trovato se l’inadempienza non si fosse verificata, anche l’obbligazione risarcitoria derivante da danno per lucro cessante è sensibile al fenomeno della svalutazione monetaria, la quale concreta una causa di aggravamento del depauperamento del creditore ed opera sia quando gli effetti negativi dell’inadempimento siano consistiti in una perdita di valore, sia quando siano consistiti in una perdita di valuta. Cass. civ. sez. III, 4 settembre 1982, n. 4816

Gli interessi compensativi sulla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno (contrattuale o extracontrattuale) costituiscono una componente di quest’ultimo e, nascendo dal medesimo fatto generatore della obbligazione risarcitoria, devono ritenersi ricompresi nella domanda di risarcimento e possono essere liquidati d’ufficio. Pertanto, l’impugnazione della decisione di primo grado si estende necessariamente anche al computo di quegli interessi, pur se non sia stato specificamente censurato il criterio adottato sul punto, con la conseguenza che il giudice dell’impugnazione (o del rinvio), anche in difetto di un puntuale rilievo sulla loro modalità di liquidazione prescelta dal giudice precedente, può procedere ad una nuova quantificazione della somma dovuta a titolo risarcitorio e dell’ulteriore danno da ritardato pagamento, utilizzando la tecnica che ritiene più appropriata al fine di reintegrare il patrimonio del creditore. Cass. civ. sez. I, 15 febbraio 2017, n. 4028

Gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall’art. 1224 c.c. in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente; fine consegue che nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi, che il giudice di merito, anche in sede di giudizio di rinvio, deve attribuire, senza per ciò solo incorrere nel vizio di ultrapetizione. Cass. civ. sez. III, 14 giugno 2016, n. 12140

La rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell’obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d’ufficio ed in grado di appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi compresi nell’originario “petitum” della domanda risarcitoria, ove non fine siano stati espressamente esclusi. Cass. civ. sez. III, 16 dicembre 2014, n. 26374

Con la sentenza definitiva che decide sulla liquidazione di un’obbligazione di valore, da effettuarsi in valori monetari correnti, si determina la conversione del debito di valore in debito di valuta con il riconoscimento da tale data degli interessi corrispettivi. Fine consegue che è preclusa l’ulteriore rivalutazione monetaria derivante dall’eventuale ritardo nell’esecuzione del giudicato, valendo, in tale ipotesi, i criteri previsti dalla legge per il debito di valuta. Cass. civ. sez. II, 14 aprile 2011, n. 8507

Nei debiti di valore i cosiddetti interessi compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno causato dal ritardato pagamento dell’equivalente monetario attuale della somma dovuta all’epoca dell’evento lesivo. Tale danno sussiste solo quando, dal confronto comparativo in unità di pezzi monetari tra la somma rivalutata riconosciuta al creditore al momento della liquidazione e quella di cui egli disporrebbe se (in ipotesi tempestivamente soddisfatto) avesse potuto utilizzare l’importo allora dovutogli secondo le forme considerate ordinarie nella comune esperienza ovvero in impieghi più remunerativi, la seconda ipotetica somma sia maggiore della prima, solo in tal caso potendosi ravvisare un danno da ritardo, indennizzabile in vario modo, anche mediante il meccanismo degli interessi, mentre in ogni altro caso il danno va escluso. Il giudice del merito è tenuto a motivare il mancato riconoscimento degli interessi compensativi solo quando sia stato espressamente sollecitato mediante l’allegazione della insufficienza della rivalutazione ai fini del ristoro del danno da ritardo secondo il criterio sopra precisato. Cass. civ. sez. III, 24 ottobre 2007, n. 22347

Il risarcimento del danno da fatto illecito costituisce debito di valore e, in caso di ritardato pagamento di esso, gli interessi non costituiscono un autonomo diritto del creditore, ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual’era all’epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria. Fine consegue che, impugnato il capo della sentenza contenente la liquidazione del danno, non può invocarsi il giudicato in ordine alla misura legale degli interessi precedentemente attribuiti e il giudice dell’impugnazione (o del rinvio), anche in difetto di uno specifico rilievo sulla modalità di liquidazione degli interessi prescelta dal giudice precedente, può procedere alla riliquidazione della somma dovuta a titolo risarcitorio e dell’ulteriore danno da ritardato pagamento, utilizzando la tecnica che ritiene più appropriata al fine di reintegrare il patrimonio del creditore (riconoscendo gli interessi nella misura legale o in misura inferiore, oppure non riconoscendoli affatto, potendo utilizzare parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria o dalla redditività media del denaro nel periodo considerato), restando irrilevante che vi sia stata impugnazione o meno in relazione agli interessi già conseguiti e alla misura degli stessi. Cass. civ. Sezioni Unite, 5 aprile 2007, n. 8520

Soltanto gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento da atto illecito, costituendo una componente del risarcimento del danno, possono essere attribuiti anche in assenza di espressa domanda della parte creditrice, mentre, in tutti gli altri casi, gli interessi, avendo un fondamento autonomo e integrando obbligazioni distinte rispetto a quelle principali, attinenti alle somme alle quali si aggiungono, possono essere riconosciuti solo su espressa domanda degli aventi diritto. (Principio affermato dalla S.C. in relazione a procedimento avente ad oggetto la domanda, nei confronti di un altro proprietario, di rimborso pro quota delle spese di appalto cui il comproprietario dell’immobile era stato condannato in precedente giudizio). Cass. civ. sez. II, 18 gennaio 2007, n. 1087

In caso di lesioni personali con postumi invalidanti permanenti, ove il danno patrimoniale futuro (costituisca esso danno emergente, come per le spese mediche non ancora sostenute, ovvero lucro cessante da perdita o riduzione della capacità lavorativa) sia liquidato nella forma della capitalizzazione anticipata, dalla somma capitalizzata e liquidata in relazione ai valori monetari della data della pronuncia va effettuata la detrazione del montante di anticipazione (calcolato sulla base degli interessi a scalare); sull’importo risultante possono essere riconosciuti gli interessi compensativi, da calcolarsi nella misura degli interessi al tasso legale sulla minor somma che fine avrebbe costituito l’equivalente monetario alla data di insorgenza del credito (data del fatto lesivo), ovvero mediante l’attribuzione di interessi sulla somma liquidata all’attualità ma ad un tasso inferiore a quello legale medio nel periodo di tempo che viene in considerazione, ovvero mediante il riconoscimento di interessi legali sulla somma attribuita, ma a decorrere da una data intermedia, ovvero computando gli interessi sulla somma progressivamente rivalutata anno per anno dalla data dell’illecito. Cass. civ. sez. III, 23 gennaio 2006, n. 1215

La liquidazione del danno da parte del giudice trasforma l’obbligazione risarcitoria da obbligazione di valore in obbligazione di valuta, con la conseguenza che il giudice non può riconoscere gli interessi per il periodo successivo alla decisione no al saldo, in mancanza di specifica domanda della parte in tal senso. Cass. civ. sez. I, 17 settembre 2003, n. 13666

Nella obbligazione risarcitoria da fatto illecito, che costituisce tipico debito di valore, è possibile che la mera rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari attuati, non valgono a reintegrare pienamente il creditore, che va posto nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato tempestivo. In tal caso, è onere del creditore provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo. Il che può dipendere, prevalentemente, dal rapporto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione, essendo ovvio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un danno da ritardo non è normalmente configurabile. Da ciò ha ad emergere come, per un verso, gli interessi cosiddetti compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno da ritardo nei debiti di valore; per altro verso, non sia configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli stessi: sia perché il danno da ritardo che con quella modalità liquidatoria si indennizza non necessariamente esiste, sia perché, di per sé, esso può essere comunque già ricompresso nella somma liquidata in termini monetari attuali. Cass. civ. sez. III, 25 agosto 2003, n. 12452

Sulle somme di danaro liquidate a titolo di risarcimento danni decorrono gli interessi di pieno diritto no al saldo e pertanto il giudice non può limitarne l’attribuzione al giorno della sentenza. Cass. civ. sez. III, 18 gennaio 2000, n. 491

Al danneggiato da fatto illecito extracontrattuale spetta un risarcimento per equivalente pecuniario, da rapportare al momento della liquidazione; se poi egli dimostra di aver subito un ulteriore pregiudizio per non aver ricevuto tale risarcimento n dal momento in cui gli spettava, ossia dal fatto illecito, per il corrispondente periodo di ritardo gli spetta una somma a titolo di interessi cosiddetti compensativi, da stabilire in base ai criteri indicati dall’art. 2056 c.c. e che perciò non coincide con l’ammontare degli interessi legali sul capitale rivalutato, con decorrenza dal fatto illecito, perché gli interessi legali moratori (art. 1224 c.c.) costituiscono una sanzione per il ritardo nel pagamento di un’obbligazione originariamente pecuniaria. Cass. civ. sez. III, 19 luglio 1997, n. 6662

Gli interessi compensativi sulle somme di denaro liquidate a titolo di risarcimento del danno costituiscono una componente del danno stesso e della relativa domanda e possono, quindi, essere assegnati dal giudice anche d’ufficio. Conseguentemente, non costituisce domanda nuova improponibile a norma dell’art. 345 c.p.c. l’istanza di attribuzione di detti interessi formulata per la prima volta nel giudizio di appello. Cass. civ. sez. II, 29 giugno 1985, n. 3888

In tema di obbligazioni risarcitorie derivanti da inadempimento contrattuale (nella specie da inadempimento del contratto di appalto pubblico), gli interessi sulle somme di denaro liquidate decorrono dalla data della domanda giudiziale in quanto atto idoneo a porre in mora il debitore e non già dal momento dell’evento dannoso. Cass. civ. sez. I, 5 agosto 2019, n. 20883

Il risarcimento del danno da illecito aquiliano integra un debito di valore sicché, ove il giudice di merito abbia riconosciuto sulla somma capitale dovuta al danneggiato e liquidata nella sentenza di primo grado gli interessi compensativi al tasso legale, gli interessi per l’ulteriore danno da mancata tempestiva disponibilità dell’equivalente monetario del pregiudizio patito decorrono non dalla pubblicazione della decisione, ma dai singoli momenti nei quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio. Cass. civ. sez. III, 15 giugno 2016, n. 12288

Il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro, liquidate a titolo risarcitorio, decorrono dalla data in cui il danno si è verificato, è applicabile solo in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, in quanto, ai sensi dell’art. 1219, comma 2, c.c. il debitore del risarcimento del danno è in mora (“mora ex re”) dal giorno della consumazione dell’illecito, mentre, se l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che è l’atto idoneo a porre in mora il debitore, siccome la sentenza costitutiva, che pronuncia la risoluzione, produce i suoi effetti retroattivamente dal momento della proposizione della detta domanda. Cass. civ. sez. III, 5 aprile 2016, n. 6545

In materia di fatto illecito extracontrattuale, il danno da ritardato adempimento dell’obbligazione risarcitoria va liquidato applicando un saggio di interessi scelto in via equitativa dal giudice o sulla semisomma (e cioè la media) tra il credito rivalutato alla data della liquidazione e lo stesso credito espresso in moneta all’epoca dell’illecito, ovvero -per l’identità di risultato – sul credito espresso in moneta all’epoca del fatto e poi rivalutato anno per anno. Tali interessi si producono dalla data in cui si è verificato il danno (coincidente, per il danno biologico permanente, con quella del consolidamento dei postumi) no a quella della liquidazione e, successivamente, sull’importo costituito dalla sommatoria di capitale e danno da mora, ormai trasformato in obbligazione di valuta, maturano interessi al saggio legale, ai sensi dell’art. 1282, primo comma, cod. civ. Cass. civ. sez. III, 10 ottobre 2014, n. 21396

Nella obbligazione risarcitoria da fatto illecito, che costituisce tipico debito di valore, in cui il danaro non costituisce oggetto della prestazione, ma solo metro di commisurazione del valore perduto dal creditore, gli interessi, non già moratori, ma compensativi, costituiscono solo una delle possibili modalità liquidatorie dell’eventuale danno da lucro cessante conseguito alla ritardata corresponsione dell’equivalente monetario del danno. Ove il giudice adotti, come criterio del risarcimento del danno da ritardato adempimento, quello degli interessi, questi non possono essere calcolati dalla data dell’illecito sulla somma liquidata per il capitale, ma con riferimento ai singoli momenti – da determinarsi in concreto, secondo le circostanze del caso – con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio. (Omissis). Cass. civ. sez. III, 20 gennaio 1999, n. 490

In tema di risarcimento del danno per la perdita della possibilità di promozione in una selezione concorsuale o a scelta, ove il giudice ritenga di assumere come parametro (con un coefficiente di riduzione adeguato alla misura accertata di tale possibilità) la differenza tra le retribuzioni percepite e quelle percepiende registrate in un dato arco di tempo, la rivalutazione monetaria e gli interessi legali vanno calcolati, sugli importi risultanti dalla applicazione del suddetto coefficiente di riduzione alle singole differenze mensili, dalle date alle quali le differenze stesse si riferiscono. Cass. civ. sez. lav. 17 marzo 1998, 2881

Quando il giudice liquida il danno (nella specie, mancato guadagno) conseguente all’inadempimento contrattuale di una parte con riferimento alla data della sentenza, in tal modo reintegrando il patrimonio del danneggiato nella consistenza che aveva alla data dell’evento dannoso, gli interessi sono dovuti solo dal giorno della sentenza, e non dalla data dell’evento dannoso. Cass. civ. sez. II, 26 febbraio 1993, n. 2456

Gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale (così come per quello patrimoniale) decorrono dal giorno in cui il fatto illecito si è verificato, secondo i principi generali in materia di cui agli artt. 1224 e 1282 c.c. Cass. civ. sez. III, 4 febbraio 1993, n. 1384

In tema di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. gli interessi sulla somma liquidata a tal fine decorrono dall’epoca della commissione dell’illecito, che, nell’ipotesi di irreversibile realizzazione dell’opera pubblica su suolo legittimamente occupato in virtù di provvedimento d’urgenza e provvisorio, si considera avvenuto alla data di scadenza del tempo della legittima occupazione, senza che siano intervenuti proroga o decreto di definitiva espropriazione del suolo. Cass. civ. sez. I, 3 maggio 1991, n. 4848

La decorrenza degli interessi sull’importo liquidato per il risarcimento derivato dalla mancata utilizzazione di un bene (lucro cessante), quando detto importo corrisponda alla somma degli equivalenti monetari dell’inutilizzabilità del bene medesimo durante ciascuna delle frazioni temporali (anno, mese, settimana, giorno) considerate in concreto dal giudice come unità di commisurazione del pregiudizio da risarcire e comprese nel periodo per il quale l’inutilizzabilità del bene si sia protratta, deve essere stabilita con riferimento non all’intero e complessivo importo risultante bensì a ciascuna di tali frazioni (di progressiva maturazione del credito risarcitorio) e con riferimento alle progressive corrispondenti scadenze dal giorno della domanda giudiziale – se manchi un precedente atto di costituzione in mora – e no al soddisfacimento. Cass. civ. sez. II, 5 dicembre 1990, n. 11695

In tema di risarcimento del danno alla vita di relazione, qualora sia stata liquidata equitativamente una somma globale, con riferimento sia alla parte di danno già maturata, sia a quella futura, tenendosi conto, per quest’ultima parte, degli interessi a scalare corrispondenti all’erogazione anticipata, gli interessi compensativi sull’intera somma globale liquidata, decorrono pur sempre dalla data del fatto illecito produttivo del danno. Cass. civ. sez. III, 4 settembre 1990, n. 9118

In tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, sulla somma riconosciuta al danneggiato a titolo di risarcimento occorre che si consideri, oltre alla svalutazione monetaria(che costituisce un danno emergente), anche il nocumento finanziario subito a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento (quale lucro cessante). Qualora tale danno sia liquidato con la tecnica degli interessi, questi non vanno calcolati nè sulla somma originaria, nè sulla rivalutazione al momento della liquidazione, ma debbono computarsi o sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno ovvero sulla somma originaria rivalutata in base ad un indice medio, con decorrenza sempre dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso. Cass. civ. sez. I, 10 aprile 2018, n. 8766

In tema di danno da ritardo nel pagamento di debito di valore, il riconoscimento di interessi compensativi costituisce una mera modalità liquidatoria alla quale il giudice può far ricorso col limite costituito dall’impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell’illecito. Non gli è invece inibito, purché esibisca una motivazione sufficiente a dar conto del metodo utilizzato, di riconoscere interessi anche al tasso legale su somme progressivamente rivalutate; ovvero sulla somma integralmente rivalutata, ma da epoca intermedia; ovvero, sempre sulla somma rivalutata e con decorrenza dalla data del fatto, ma con un tasso medio di interesse, in modo da tener conto che essi decorrono su una somma che inizialmente non era di quell’entità e che si è solo progressivamente adeguata a quel risultato finale; ovvero, di non riconoscerli affatto, in relazione a parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria e dalla redditività media del denaro nel periodo considerato. Cass. civ. sez. III, 23 marzo 2018, n. 7267

Ai fini dell’integrale risarcimento del danno conseguente a fatto illecito sono dovuti sia la rivalutazione della somma liquidata ai valori attuali, al fine di rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, che deve essere adeguata al mutato valore del denaro nel momento in cui è emanata la pronuncia giudiziale finale, sia gli interessi compensativi sulla predetta somma, che sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito. Cass. civ. sez. III, 10 giugno 2016, n. 11899

In materia di inadempimento contrattuale, l’obbligazione di risarcimento del danno configura un debito di valore, sicché, qualora si provveda all’integrale rivalutazione del credito relativo al maggior danno no alla data della liquidazione, secondo gli indici di deprezzamento della moneta, gli interessi legali sulla somma rivalutata dovranno essere calcolati dalla data della liquidazione, poiché altrimenti si produrrebbe l’effetto di far conseguire al creditore più di quanto lo stesso avrebbe ottenuto in caso di tempestivo adempimento della obbligazione. Cass. civ. sez. II, 5 maggio 2016, n. 9039

In tema di debiti di valore, il pregiudizio derivante dal ritardato conseguimento del risarcimento del danno deve essere liquidato mediante gli interessi legali computati sulla somma originaria rivalutata anno per anno ovvero su tale somma rivalutata in base ad un indice medio. Cass. civ. sez. II, 3 agosto 2010, n. 18028

In tema di risarcimento del danno, dovendo la liquidazione essere effettuata in valori monetari attuali, non è necessaria l’espressa richiesta da parte dell’interessato degli interessi legali sulle somme rivalutate, la quale deve ritenersi compresa nella domanda di integrale risarcimento inizialmente proposta e se avanzata per la prima volta in appello non comporta una violazione dell’art. 345 c.p.c. atteso che nei debiti di valore il riconoscimento degli interessi c.d. compensativi costituisce una modalità liquidatoria del possibile danno da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso con il limite dell’impossibilità di calcolarli sulle somme integralmente rivalutate alla data dell’illecito, e che l’esplicita richiesta deve intendersi esclusivamente riferita al valore monetario attuale ed all’indennizzo del lucro cessante per la ritardata percezione dell’equivalente in denaro del danno patito. Cass. civ. sez. III, 28 aprile 2010, n. 10193

Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata con riferimento ai valori monetari esistenti alla data della liquidazione, non occorre tener conto della svalutazione verificatasi a partire dal giorno dell’insorgere del danno, essendo dovuto al danneggiato soltanto il risarcimento del mancato guadagno (o lucro cessante) provocato dal ritardo nella liquidazione. Tale risarcimento può avvenire attraverso la liquidazione di interessi ad un tasso stabilito dal giudice del merito valutando tutte le circostanze del caso, ma gli interessi non possono essere calcolati dalla data dell’illecito sulla somma rivalutata, perché la somma dovuta – il cui mancato godimento va risarcito va aumentata gradualmente nell’intervallo di tempo occorso tra la data del sinistro e quella della liquidazione. Inoltre, sull’importo liquidato all’attualità della data della pronuncia possono essere riconosciuti gli interessi compensativi, da calcolarsi nella misura degli interessi al tasso legale sulla minor somma che fine avrebbe costituito l’equivalente monetario alla data di insorgenza del credito (coincidente con quella dell’evento dannoso), ovvero mediante l’attribuzione di interessi sulla somma liquidata all’attualità ma ad un tasso inferiore a quello legale medio nel periodo di tempo da considerare, ovvero attraverso il riconoscimento degli interessi legali sulla somma attribuita, ma a decorrere da una data intermedia, ossia computando gli interessi sull’importo progressivamente rivalutato anno per anno dalla data dell’illecito. Cass. civ. sez. II, 18 febbraio 2010, n. 3931

Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata «per equivalente » ovvero con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta no alla data della decisione definitiva, il criterio più idoneo allo scopo per l’adeguamento dell’importo dovuto a titolo risarcitorio è quello dell’attribuzione degli interessi legali dalla data del fatto sul capitale mediamente rivalutato, che si persegue dividendo la sorte capitale attualizzata per il coefficiente di rivalutazione ISTAT relativo all’anno dell’evento dannoso e aggiungendo al capitale non attualizzato la metà della rivalutazione maturata. (Omissis ). Cass. civ. sez. III, 1 marzo 2007, n. 4791

Nell’obbligazione risarcitoria (che costituisce debito di valore in quanto diretta alla reintegrazione del danneggiato nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto) il principale mezzo di commisurazione attuale del valore perduto dal creditore è fornito dalla rivalutazione monetaria, mentre il riconoscimento degli interessi rappresenta una modalità di liquidazione del possibile danno ulteriore da lucro cessante, cui è consentito fare ricorso solo nei casi in cui la rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore. Pertanto, il mero ritardo nella percezione dell’equivalente monetario non dà automaticamente diritto alla corresponsione degli interessi, occorrendo a tal fine l’allegazione e la prova del danno ulteriore subìto dal creditore, che si realizza solo se ed in quanto la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) risulti inferiore a quella di cui il danneggiato avrebbe disposto, alla data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo. L’accertamento di tale danno può aver luogo anche in base a criteri presuntivi collegati al rapporto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione, essendo ovvio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un danno da ritardo non sarà normalmente configurabile. Cass. civ. sez. III, 28 luglio 2005, n. 15823

In tema di responsabilità contrattuale da inadempimento per effetto della liquidazione il debito di valore inerente al danno da svalutazione monetaria, conseguente all’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria, si converte in debito di valuta il cui importo si somma a quello dell’obbligazione rimasta inadempiuta ed, al pari di questa ultimo, è produttivo di interessi legali corrispettivi con decorrenza dalla data della domanda giudiziale ovvero della liquidazione. Cass. civ. sez. III, 11 marzo 2004, n. 4983

L’obbligo di risarcire il danno aquiliano costituisce una tipica obbligazione di valore, con la conseguenza che, in caso di ritardo nell’adempimento, spetta al creditore il risarcimento del danno ulteriore rappresentato dalla perdita delle utilità che il godimento tempestivo della somma di denaro gli avrebbe consentito. La liquidazione di questo tipo di danno può avvenire nella forma degli interessi compensativi, ma solo se non già ricompresi nella somma rivalutata, ovvero liquidata in termini monetari attuali, come si verifica allorché la remuneratività media del danaro nel periodo in considerazione sia inferiore al tasso di svalutazione, perché in tale ipotesi non è nemmeno configurabile un danno da ritardo. L’onere di provare che la somma rivalutata, ovvero liquidata in moneta attuale, sia inferiore a quella di cui il creditore avrebbe disposto alla data della sentenza se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo, è posto a carico del creditore stesso, che può adempiervi anche a mezzo di presunzioni. Cass. civ. sez. III, 18 marzo 2003, n. 3994

In tema di risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale, liquidato per equivalente e rivalutato no alla data della decisione definitiva, è dovuto altresì il danno da ritardo, che può essere liquidato con criteri presuntivi ed equitativi e sulla base di un indice medio, anche attraverso l’attribuzione degli interessi ad un tasso decurtato rispetto alla misura legale. Tale decurtazione non è, invece, ammissibile in riferimento agli interessi riconosciuti a decorrere dalla sentenza e no al soddisfo, in quanto detta sentenza trasforma un debito di valore in debito di valuta. Cass. civ. sez. III, 27 luglio 2001, n. 10300

Nella liquidazione del credito di valore – nella specie, risarcimento del danno derivato dall’occupazione sine titulo di un bene immobile, oggetto di un contratto preliminare di compravendita dichiarato nullo – sulla somma riconosciuta possono calcolarsi sia la svalutazione, sia gli interessi con la medesima decorrenza, perché la prima ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato antecedentemente alla consumazione dell’illecito; i secondi, invece, hanno una funzione compensativa, con la conseguenza che questi ultimi sono compatibili con la rivalutazione e vanno corrisposti e calcolati anno per anno sulla somma via via rivalutata con decorrenza dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso. Cass. civ. sez. II, 7 giugno 2001, n. 7692

In caso di obbligazione risarcitoria e quindi di debito di valore, al fine di porre il creditore nella stessa situazione nella quale si sarebbe trovato se il pagamento dell’equivalente monetario del bene perduto fosse stato tempestivo, il giudice, quando deve determinare l’equivalente monetario attuale del danno, non può prescindere dalla quantificazione (pur solo probabilistica) della somma di cui il creditore in quello stesso momento avrebbe potuto disporre se fosse stato immediatamente risarcito. Pertanto, se tale somma risultasse inferiore a quella liquidata come equivalente monetario del danno, difettando il presupposto stesso per riconoscere un danno da ritardo, non vanno riconosciuti gli interessi. Cass. civ. sez. III, 6 aprile 2001, n. 5161

La corretta applicazione del criterio generale della “compensatio lucri cum damno” postula che, quando unico è il fatto illecito generatore del lucro e del danno, nella quanticazione del risarcimento si tenga conto anche di tutti i vantaggi nel contempo derivati al danneggiato, perché il risarcimento è finalizzato a sollevare dalle conseguenze pregiudizievoli dell’altrui condotta e non a consentire una ingiustificata locupletazione del soggetto danneggiato. Cass. civ. sez. I, 18 giugno 2018, n. 16088

L’effetto della compensatio lucri cum damno che si riconnette al criterio di determinazione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1223 c.c. si verifica esclusivamente allorché il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, quali suoi effetti contrapposti, e non quando il fatto generatore del pregiudizio patrimoniale subito dal creditore sia diverso da quello che invece gli abbia procurato un vantaggio. Cass. civ. Sezioni Unite, 25 novembre 2008, n. 28056

In tema di liquidazione del danno alla persona, qualora la vittima dell’illecito, a causa dell’invalidità dallo stesso derivata, abbia perduto in tutto o in parte il proprio reddito da lavoro e la prospettiva di futuri guadagni, ma abbia ugualmente lucrato vantaggi patrimoniali con altri mezzi o per effetto di un rapporto giuridico indipendente dal fatto illecito, tali vantaggi, in quanto meramente occasionati dal fatto illecito e dall’evento dannoso, e non causalmente ricollegabili ad esso, non riducono né elidono il pregiudizio legato alla perdita del reddito da lavoro. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che il lavoratore costretto al pensionamento anticipato a causa dell’invalidità provocata dall’altrui illecito extracontrattuale ha diritto al risarcimento del danno conseguente alla perdita dei proventi della sua attività lavorativa no al compimento dell’età pensionabile, escludendo l’operatività della compensatio lucri com damno con il reddito derivante dalla pensione eventualmente percepita ). Cass. civ. sez. III, 28 luglio 2005, n. 15822

Dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’ente pubblico, in conseguenza di quel fatto, essendo tale indennità rivolta a fronteggiare ed a compensare direttamente il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito, consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore o assistente per le esigenze della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto. Cass. civ. Sezioni Unite, 22 maggio 2018, n. 12567

L’importo della rendita per l’inabilità permanente, corrisposta dall’INAIL per l’infortunio “in itinere” occorso al lavoratore, va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito, in quanto essa soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo al quale sia addebitabile l’infortunio, salvo il diritto del lavoratore di agire nei confronti del danneggiante per ottenere l’eventuale differenza tra il danno subìto e quello indennizzato. Cass. civ. Sezioni Unite, 22 maggio 2018, n. 12566

Nella liquidazione del danno patrimoniale consistente nelle spese che la vittima di lesioni personali deve sostenere per l’assistenza domiciliare, il giudice deve detrarre dal credito risarcitorio sia i benefici spettanti alla vittima a titolo di indennità di accompagnamento (ex art. 5 della l. n. 222 del 1984), sia quelli previsti dalla legislazione regionale in tema di assistenza domiciliare, posto che dell’insieme di tali disposizioni il giudice – in virtù del principio “iura novit curia” – dovrà fare applicazione d’ufficio se i presupposti di tale applicabilità risultino comunque dagli atti. Cass. civ. sez. III, 20 aprile 2016, n. 7774

Le somme liquidate dall’INAIL in favore del danneggiato da sinistro stradale a titolo di rendita capitalizzata ex art. 28 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, vanno detratte, in base al principio indennitario, dall’importo del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del responsabile onde evitare una duplicazione di risarcimento sia in favore del danneggiato, che a carico dell’assicuratore o del responsabile, atteso che, eseguita la prestazione in favore del danneggiato da parte dell’INAIL ed esercitato dall’assicuratore il diritto di surroga con la comunicazione al terzo responsabile della volontà di surrogarsi nei diritti del danneggiato, quest’ultimo perde la titolarità del credito per la quota corrispondente all’indennizzo assicurativo corrispostogli ed in tale credito succede l’ente surrogatosi. Cass. civ. sez. III, 5 dicembre 2014, n. 25733

In tema di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, dall’ammontare del risarcimento deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento, che è inteso a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile. Cass. civ. sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537

Nella liquidazione del danno patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro e di guadagno, per evitare duplicazioni risarcitorie, dal danno effettivamente patito dalla vittima per la sua diminuita capacità lavorativa specifica, accertato e quantificato dal giudice con i criteri della responsabilità civile, va sottratto il valore capitale della rendita erogata dall’Inail, rappresentando quest’ultimo un indennizzo anch’esso destinato al ristoro di un danno patrimoniale. (Fattispecie anteriore al d.l.vo 23 febbraio 2000, n. 38). Cass. civ. sez. III, 2 luglio 2010, n. 15738

La pensione previlegiata cosiddetta «tabellare» liquidata in favore del militare di leva che riporti infermità o lesioni per fatti di servizio, da calcolarsi in base ad indici pressati in rapporto alla entità ed alla efficacia invalidante della menomazione, ha carattere risarcitorio e non già previdenziale, prescindendo dalla durata del servizio e dall’ammontare dei contributi versati; con la conseguenza che, sussistendo identità di titolo tra detta pensione ed il danno liquidabile per il medesimo evento secondo le norme del codice civile – data la unicità sia del fatto antigiuridico da cui derivi il pregiudizio sia del bene giuridico protetto consistente nella integrità della persona –, quanto erogato dallo Stato per la indicata pensione è detraibile dall’importo dell’integrale risarcimento. Cass. civ. sez. III, 4 gennaio 2002, n. 64

Nella liquidazione del danno derivante da licenziamento illegittimo, il giudice deve tener conto, a titolo di aliunde perceptum, dell’indennità di disoccupazione percepita dal lavoratore licenziato nel periodo considerato ai fini della suddetta liquidazione (indennità relativamente alla quale l’onere contributivo grava esclusivamente sul datore di lavoro) a nulla rilevando la diversità soggettiva tra colui che è tenuto al suddetto risarcimento (e cioè il datore di lavoro) ed il soggetto tenuto ad erogare l’indennità di disoccupazione (l’Inps), atteso che la compensatio lucri cun damno risponde al criterio di adeguamento del risarcimento al danno effettivamente subito, secondo i principi di cui all’art. 1223 codice civile. Cass. civ. sez. lav. 29 marzo 1996, n. 2906

Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, trattandosi di una forma di tutela previdenziale confessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo. Cass. civ. Sezioni Unite, 22 maggio 2018, n. 12564

In tema di “aliunde perceptum”, le somme percepite dal lavoratore a titolo d’indennità di mobilità non possono essere detratte da quanto egli abbia ricevuto come risarcimento del danno per il mancato ripristino del rapporto ad opera del cedente a seguito di dichiarazione di nullità della cessione di azienda o di ramo di essa, atteso che detta indennità opera su un piano diverso dagli incrementi patrimoniali che derivano al lavoratore dall’essere stato liberato, anche se illegittimamente, dall’obbligo di prestare la sua attività, dando luogo la sua eventuale non spettanza ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge. Cass. civ. sez. lav. 27 marzo 2017, n. 7794

In tema di risarcimento del danno da illecito, il principio della “compensatio lucri cum damno” trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l’incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito, sicché non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione confessa alla morte o all’invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall’atto illecito e non hanno finalità risarcitorie. Cass. civ. sez. III, 30 settembre 2014, n. 20548

In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto alla pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell’assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro e non si pone, di per sé, come causa di risoluzione del rapporto di lavoro, sicché le utilità economiche che il lavoratore fine ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della “compensatio lucri cum damno”. Cass. civ. sez. lav. 15 luglio 2014, n. 16143

In caso di illegittimo disconoscimento del diritto del lavoratore già collocato a riposo di proseguire nella prestazione lavorativa no al quarantesimo anno utile al raggiungimento della pensione, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché le utilità economiche che il lavoratore fine ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno Tale compensatio d’altra parte, non può configurarsi neanche allorché, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di lavoro, l’ammissione al trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività, nè allorché il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione a divieti pio meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del diniego del diritto alla prosecuzione dell’attività lavorativa travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col danno, e cioè come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore. Cass. civ. sez. lav. 8 maggio 2008, n. 11373

Con riferimento al lavoratore licenziato in applicazione di una vigente disposizione legislativa di prepensionamento (art. 3 della legge n. 270 del 1988), successivamente dichiarata incostituzionale (sentenza n. 60 del 1991), la domanda di risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non percepite non può essere diminuita degli importi ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, non operando la regola della compensatio lucri cum damno derivando dalla legge l’ammissione al trattamento previdenziale in relazione alla perdita del posto di lavoro, con la conseguenza che la declaratoria di illegittimità travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione. Cass. civ. sez. lav. 13 novembre 2007, n. 23565

In caso di licenziamento nullo perchè intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio in violazione del divieto di cui all’art. 2 della legge n. 1204 del 1971, dal pagamento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, possono essere detratti eventuali corrispettivi per attività lavorative espletate nel corso del rapporto dichiarato nullo (aliunde perceptum), ove il datore di lavoro fine fornisca la relativa prova, mentre non possono essere detratte le indennità previdenziali, non potendo, le stesse ritenersi acquisite, in via definitiva, dal lavoratore, in quanto ripetibili dagli Istituti previdenziali. Cass. civ. sez. lav. 1 giugno 2004, n. 10531

Il collocamento a riposo e la semplice comunicazione dell’operatività della clausola di risoluzione automatica del rapporto di lavoro, al raggiungimento della massima anzianità contributiva, non configurano di per sè un licenziamento, cioè la volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto, cui può conseguire il diritto del lavoratore alla reintegrazione e al risarcimento del danno. Pertanto qualora il giudice di merito abbia disposto la reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento, la decisione va corretta in sede di legittimità affermando l’attuazione del diritto del ricorrente alla continuità del rapporto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni; l’importo corrisposto a titolo di retribuzione, peraltro, non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicchè le utilità economiche che il lavoratore fine ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno. Cass. civ. sez. lav. 17 febbraio 2004, n. 3088

In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo a norma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, commisurato alle retribuzioni perse a seguito del licenziamento no alla riammissione in servizio, non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché le utilità economiche che il lavoratore fine ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno. Tale compensatio, d’altra parte, non può configurarsi neanche allorché, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di lavoro, l’ammissione al trattamento previdenziale, sicché il rapporto fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternatività, né allorché il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione a divieti pio meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col danno, e cioè come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore. Cass. civ. Sezioni Unite, 13 agosto 2002, n. 12194

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