Ancora un’altra riforma in tema di prescrizione

Articolo a cura della Dott.ssa Pagnotta Ludovica

Riforma prescrizione

1. Che cos’è la prescrizione del reato?

Con il termine prescrizione del reato, si fa genericamente riferimento ad una causa di estinzione del reato, disciplinata ai sensi degli artt. 157 e ss. c.p.
In base a tale istituto, effettivamente molto complesso, trascorso un certo lasso di tempo senza che sia intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato, il reato è estinto; pertanto, lo Stato non ha più interesse a perseguire penalmente l’autore del fatto illecito; anche se è bene premettere che tale istituto non trova applicazione in riferimento a taluni reati che, essendo puniti con la pena dell’ergastolo, sono imprescrittibili.
La ratio dell’istituto della prescrizione è chiara: in un ordinamento giuridico come quello italiano, non si può pensare che un soggetto sia eternamente giudicabile.
Tuttavia, tale istituto non ha mai soddisfatto appieno gli operatori di settore, tanto che negli ultimi anni si è assistito ad un  susseguirsi di riforme; in particolare, l’ultimo intervento di modifica è stato introdotto dalla legge del 27 settembre 2021 n.134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n.237 del 4 ottobre 2021 [1].

2. I molteplici interventi di riforma

Come detto, nel corso degli ultimi anni, si è assistito ad un susseguirsi di un sempre maggiore numero di riforme che, per completezza espositiva, analizzeremo partendo dalla riforma introdotta con la legge Cirielli.
Già a partire dal 2005, si è infatti sentita l’esigenza di introdurre nel nostro ordinamento una riforma in tema di prescrizione: in particolare, con la legge 5 dicembre 2005 n.251, si era stabilito che il tempo necessario per la prescrizione del reato dovesse corrispondere al “massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque… non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro se si tratta di contravvenzione…quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni”.
Tuttavia, parte della dottrina aveva osservato che tale soluzione avrebbe portato a conseguenze irragionevoli, in quanto per taluni reati di  competenza del Giudice di Pace, puniti con la sola pena pecuniaria, la  prescrizione maturava in quattro anni in caso di contravvenzione, sei anni in caso di delitto, mentre per i reati più gravi puniti con la sola pena detentiva, il termine di prescrizione risultava pari a tre anni [2].
Tali considerazioni portarono ad una serie di pronunce giurisprudenziali, con cui i giudici di legittimità chiarirono che il “termine di prescrizione di cui all’art.157, comma 5, c.p., non si applica ai reati di competenza del Giudice di Pace per i quali siano previste anche pene c.d. paradetentive, in quanto tali pene si considerano a tutti gli effetti pene detentive” [3].
A ciò si aggiunge che, la grave criticità della legge Cirielli, era dovuta al fatto che vi era un rischio concreto di “concedere alla giurisdizione un tempo estremamente limitato per giungere alla sentenza definitiva” [4].
I profili critici evidenziati dalla dottrina, portarono a successivi interventi di modifica, dapprima con la riforma Orlando (legge n. 103 del 2017) e, successivamente, alla riforma introdotta con la legge Spazzacorrotti del 2019. In particolare, con la riforma Orlando, si era evidenziata la necessità di “bloccare almeno temporaneamente il decorso della prescrizione, così da assegnare alla giurisdizione un tempo ragionevole per compiere la verifica della correttezza della decisione nei gradi di impugnazione [5]”. Per raggiungere tale obiettivo, la legge n. 103 del 2017 aveva introdotto una modifica dell’art.159, comma 2, c.p., con cui le sentenze di condanna non definitive divenivano cause di sospensione del corso della prescrizione, per il periodo intercorrente tra la scadenza del termine per il deposito delle motivazioni e la lettura del dispositivo della sentenza nel grado successivo, comunque per un periodo non superiore a un anno e sei mesi. Nessun effetto sospensivo era invece previsto per il decreto penale di condanna.
Anche la riforma Orlando è stata tuttavia oggetto di numerose critiche, in quanto con tale riforma, per evitare la prescrizione del reato, veniva concesso ai giudici un termine più elevato per giungere alla pronuncia di condanna; inoltre, tale ipotesi non era prevista in caso di proscioglimento dell’imputato o di annullamento della condanna per vizi procedurali, in appello o in cassazione, casi nei quali si doveva tener conto anche del tempo di sospensione del processo [6].
Parte della dottrina aveva quindi evidenziato dubbi di legittimità costituzionale inerenti alla riforma Orlando, poiché tale riforma diversificava il termine di prescrizione per gli assolti e i condannati in appello.
Tutto questo portò alla riforma del ministro Bonafede, ossia alla legge n. 3 del 2019 (anche nota come legge Spazzacorrotti). L’intento del legislatore era quello di introdurre delle modifiche all’istituto della prescrizione, che fossero in grado di garantire la ragionevole durata del processo, di cui agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU.
Con la legge del 2019 è stata introdotta l’anticipazione del dies ad quem della prescrizione del reato: l’interruzione della prescrizione, infatti, si verifica dopo la sentenza di primo grado o – ed era infatti questa un’altra novità rilevante – del decreto penale di condanna, ciò a prescindere dal contenuto della sentenza o del decreto (quindi sia in caso di assoluzione che di condanna).
In particolare, l’art.1, comma 1, lett. e) della legge n. 3/2019 ha introdotto nell’art. 159 il comma 2, in base al quale “… il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna…”.
Di conseguenza, la riforma rende di fatto impossibile la prescrizione nei giudizi di impugnazione, per tutti i fatti commessi dopo il 1° gennaio 2020: non è infatti un segreto che uno degli obiettivi perseguiti dal legislatore era quello di disincentivare gli atti di appello per finalità dilatorie ed incentivare i riti alternativi, validi strumenti per ridurre i tempi di definizione del processo penale [7].
Considerando gli intenti perseguiti dal legislatore con la legge del 2019, viene spontaneo chiedersi il perché si è sentita l’esigenza di introdurre una nuova riforma.
Parte della dottrina ha osservato che una delle criticità della riforma Bonafede consiste nel fatto che si tratta di una riforma intempestiva, essendo stata approvata a poco più di un anno di distanza dalla precedente riforma, senza quindi consentire di valutarne gli effetti.  Inoltre, non essendo stata accompagnata da interventi organici di sistema a tutela della ragionevole durata del processo, vi è il rischio dell’inefficienza processuale dei gradi di giudizio successivi al primo, “non essendo più i giudici di Appello e di Cassazione interessati ad accelerare il processo a causa della imprescrittibilità – innanzi a loro – dei reati”[8], finendo quindi per conseguire proprio quelle problematicità del sistema che il legislatore voleva contrastare.

3. Riforma Cartabia: quali nuovi scenari?

Con l’intento di porre rimedio alle criticità evidenziate con la riforma Bonafede, la già citata ministra Cartabia è intervenuta in tema di prescrizione, attraverso la legge delega n. 134 del 2021.
La riforma si muove lungo due linee direttrici: da una parte, confermare la scelta compiuta con la legge n. 3 del 2019, ossia quella di bloccare, a seguito della sentenza di condanna o di assoluzione, il decorso del termine di prescrizione; dall’altra parte, la riforma si propone di introdurre nel codice di rito, una nuova causa di improcedibilità dell’azione penale, destinata ad operare nei giudizi di appello e di cassazione.
Il nuovo art. 344 bis c.p.p., rubricato “improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione” stabilisce infatti che: “1. La mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale. 2. La mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di un anno costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale. 3. I termini di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo decorrono dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art.544 […] 4. Quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni, o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare, i termini di cui ai commi 1 e 2 sono prorogati, con ordinanza motivata del giudice che procede […]”.
Inoltre, la riforma Cartabia restituisce al decreto penale di condanna la qualifica di atto interruttivo, limitando alla sola sentenza di primo grado, l’effetto di determinare la cessazione definitiva del corso della prescrizione [9].
L’obiettivo è quindi quello di porre rimedio al rischio di processi a tempo indeterminato, in sede di appello e di cassazione, accompagnato dall’improcedibilità dell’azione penale in caso di superamento dei termini massimi dei relativi giudizi [10].
Ciò che lascia perplessi è sicuramente la considerazione che, pur non avendo ancora trovato piena attuazione, tale riforma ha già suscitato il malcontento di alcuni giuristi; non manca infatti chi ha evidenziato, ancora una volta, le criticità che una riforma siffatta potrebbe sollevare.
La ragione è presto detta: c’è chi ritiene che “dopo il primo grado il reato non si può più prescrivere perché la prescrizione è interrotta, ma non si può più procedere… la pena inflitta in primo grado non potrebbe essere eseguita, una norma che lo consentisse verrebbe senza dubbio dichiarata incostituzionale”[11].
Il problema sarebbe quindi rappresentato dai tempi per la definizione dei giudizi, considerati eccessivamente ristretti.
Tuttavia,  si ritiene prematuro esprimere giudizi su una legge che, come detto, deve ancora trovare attuazione; non essendo possibile valutarne a priori gli effetti.
Per tale motivo, ci si auspica che, tale ultimo intervento normativo, possa trovare applicazione in tempi brevi e che possa essere in grado di garantire non solo la ragionevole durata del processo, ma anche la certezza del diritto di cui tutti abbiamo bisogno.

riforma prescrizione

1. Che cos’è la prescrizione del reato?

Con il termine prescrizione del reato, si fa genericamente riferimento ad una causa di estinzione del reato, disciplinata ai sensi degli artt. 157 e ss. c.p.
In base a tale istituto, effettivamente molto complesso, trascorso un certo lasso di tempo senza che sia intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato, il reato è estinto; pertanto, lo Stato non ha più interesse a perseguire penalmente l’autore del fatto illecito; anche se è bene premettere che tale istituto non trova applicazione in riferimento a taluni reati che, essendo puniti con la pena dell’ergastolo, sono imprescrittibili.
La ratio dell’istituto della prescrizione è chiara: in un ordinamento giuridico come quello italiano, non si può pensare che un soggetto sia eternamente giudicabile.
Tuttavia, tale istituto non ha mai soddisfatto appieno gli operatori di settore, tanto che negli ultimi anni si è assistito ad un  susseguirsi di riforme; in particolare, l’ultimo intervento di modifica è stato introdotto dalla legge del 27 settembre 2021 n.134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n.237 del 4 ottobre 2021 [1].

2. I molteplici interventi di riforma

Come detto, nel corso degli ultimi anni, si è assistito ad un susseguirsi di un sempre maggiore numero di riforme che, per completezza espositiva, analizzeremo partendo dalla riforma introdotta con la legge Cirielli.
Già a partire dal 2005, si è infatti sentita l’esigenza di introdurre nel nostro ordinamento una riforma in tema di prescrizione: in particolare, con la legge 5 dicembre 2005 n.251, si era stabilito che il tempo necessario per la prescrizione del reato dovesse corrispondere al “massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque… non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro se si tratta di contravvenzione…quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni”.
Tuttavia, parte della dottrina aveva osservato che tale soluzione avrebbe portato a conseguenze irragionevoli, in quanto per taluni reati di  competenza del Giudice di Pace, puniti con la sola pena pecuniaria, la  prescrizione maturava in quattro anni in caso di contravvenzione, sei anni in caso di delitto, mentre per i reati più gravi puniti con la sola pena detentiva, il termine di prescrizione risultava pari a tre anni [2].
Tali considerazioni portarono ad una serie di pronunce giurisprudenziali, con cui i giudici di legittimità chiarirono che il “termine di prescrizione di cui all’art.157, comma 5, c.p., non si applica ai reati di competenza del Giudice di Pace per i quali siano previste anche pene c.d. paradetentive, in quanto tali pene si considerano a tutti gli effetti pene detentive” [3].
A ciò si aggiunge che, la grave criticità della legge Cirielli, era dovuta al fatto che vi era un rischio concreto di “concedere alla giurisdizione un tempo estremamente limitato per giungere alla sentenza definitiva” [4].
I profili critici evidenziati dalla dottrina, portarono a successivi interventi di modifica, dapprima con la riforma Orlando (legge n. 103 del 2017) e, successivamente, alla riforma introdotta con la legge Spazzacorrotti del 2019. In particolare, con la riforma Orlando, si era evidenziata la necessità di “bloccare almeno temporaneamente il decorso della prescrizione, così da assegnare alla giurisdizione un tempo ragionevole per compiere la verifica della correttezza della decisione nei gradi di impugnazione [5]”. Per raggiungere tale obiettivo, la legge n. 103 del 2017 aveva introdotto una modifica dell’art.159, comma 2, c.p., con cui le sentenze di condanna non definitive divenivano cause di sospensione del corso della prescrizione, per il periodo intercorrente tra la scadenza del termine per il deposito delle motivazioni e la lettura del dispositivo della sentenza nel grado successivo, comunque per un periodo non superiore a un anno e sei mesi. Nessun effetto sospensivo era invece previsto per il decreto penale di condanna.
Anche la riforma Orlando è stata tuttavia oggetto di numerose critiche, in quanto con tale riforma, per evitare la prescrizione del reato, veniva concesso ai giudici un termine più elevato per giungere alla pronuncia di condanna; inoltre, tale ipotesi non era prevista in caso di proscioglimento dell’imputato o di annullamento della condanna per vizi procedurali, in appello o in cassazione, casi nei quali si doveva tener conto anche del tempo di sospensione del processo [6].
Parte della dottrina aveva quindi evidenziato dubbi di legittimità costituzionale inerenti alla riforma Orlando, poiché tale riforma diversificava il termine di prescrizione per gli assolti e i condannati in appello.
Tutto questo portò alla riforma del ministro Bonafede, ossia alla legge n. 3 del 2019 (anche nota come legge Spazzacorrotti). L’intento del legislatore era quello di introdurre delle modifiche all’istituto della prescrizione, che fossero in grado di garantire la ragionevole durata del processo, di cui agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU.
Con la legge del 2019 è stata introdotta l’anticipazione del dies ad quem della prescrizione del reato: l’interruzione della prescrizione, infatti, si verifica dopo la sentenza di primo grado o – ed era infatti questa un’altra novità rilevante – del decreto penale di condanna, ciò a prescindere dal contenuto della sentenza o del decreto (quindi sia in caso di assoluzione che di condanna).
In particolare, l’art.1, comma 1, lett. e) della legge n. 3/2019 ha introdotto nell’art. 159 il comma 2, in base al quale “… il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna…”.
Di conseguenza, la riforma rende di fatto impossibile la prescrizione nei giudizi di impugnazione, per tutti i fatti commessi dopo il 1° gennaio 2020: non è infatti un segreto che uno degli obiettivi perseguiti dal legislatore era quello di disincentivare gli atti di appello per finalità dilatorie ed incentivare i riti alternativi, validi strumenti per ridurre i tempi di definizione del processo penale [7].
Considerando gli intenti perseguiti dal legislatore con la legge del 2019, viene spontaneo chiedersi il perché si è sentita l’esigenza di introdurre una nuova riforma.
Parte della dottrina ha osservato che una delle criticità della riforma Bonafede consiste nel fatto che si tratta di una riforma intempestiva, essendo stata approvata a poco più di un anno di distanza dalla precedente riforma, senza quindi consentire di valutarne gli effetti.  Inoltre, non essendo stata accompagnata da interventi organici di sistema a tutela della ragionevole durata del processo, vi è il rischio dell’inefficienza processuale dei gradi di giudizio successivi al primo, “non essendo più i giudici di Appello e di Cassazione interessati ad accelerare il processo a causa della imprescrittibilità – innanzi a loro – dei reati”[8], finendo quindi per conseguire proprio quelle problematicità del sistema che il legislatore voleva contrastare.

3. Riforma Cartabia: quali nuovi scenari?

Con l’intento di porre rimedio alle criticità evidenziate con la riforma Bonafede, la già citata ministra Cartabia è intervenuta in tema di prescrizione, attraverso la legge delega n. 134 del 2021.
La riforma si muove lungo due linee direttrici: da una parte, confermare la scelta compiuta con la legge n. 3 del 2019, ossia quella di bloccare, a seguito della sentenza di condanna o di assoluzione, il decorso del termine di prescrizione; dall’altra parte, la riforma si propone di introdurre nel codice di rito, una nuova causa di improcedibilità dell’azione penale, destinata ad operare nei giudizi di appello e di cassazione.
Il nuovo art. 344 bis c.p.p., rubricato “improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione” stabilisce infatti che: “1. La mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale. 2. La mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di un anno costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale. 3. I termini di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo decorrono dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art.544 […] 4. Quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni, o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare, i termini di cui ai commi 1 e 2 sono prorogati, con ordinanza motivata del giudice che procede […]”.
Inoltre, la riforma Cartabia restituisce al decreto penale di condanna la qualifica di atto interruttivo, limitando alla sola sentenza di primo grado, l’effetto di determinare la cessazione definitiva del corso della prescrizione [9].
L’obiettivo è quindi quello di porre rimedio al rischio di processi a tempo indeterminato, in sede di appello e di cassazione, accompagnato dall’improcedibilità dell’azione penale in caso di superamento dei termini massimi dei relativi giudizi [10].
Ciò che lascia perplessi è sicuramente la considerazione che, pur non avendo ancora trovato piena attuazione, tale riforma ha già suscitato il malcontento di alcuni giuristi; non manca infatti chi ha evidenziato, ancora una volta, le criticità che una riforma siffatta potrebbe sollevare.
La ragione è presto detta: c’è chi ritiene che “dopo il primo grado il reato non si può più prescrivere perché la prescrizione è interrotta, ma non si può più procedere… la pena inflitta in primo grado non potrebbe essere eseguita, una norma che lo consentisse verrebbe senza dubbio dichiarata incostituzionale”[11].
Il problema sarebbe quindi rappresentato dai tempi per la definizione dei giudizi, considerati eccessivamente ristretti.
Tuttavia,  si ritiene prematuro esprimere giudizi su una legge che, come detto, deve ancora trovare attuazione; non essendo possibile valutarne a priori gli effetti.
Per tale motivo, ci si auspica che, tale ultimo intervento normativo, possa trovare applicazione in tempi brevi e che possa essere in grado di garantire non solo la ragionevole durata del processo, ma anche la certezza del diritto di cui tutti abbiamo bisogno.

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Note

[1] In gazzettaufficiale.it
[2] G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di diritto penale parte generale, IV ed., pg. 383-384
[3] Tra le altre, Cass. Sez. II, sent. 16 ottobre 2009, n. 45543
[4] S. Zirulia, Riforma Orlando: la “nuova” prescrizione e le altre modifiche al codice penale, Fascicolo 6/2017 in dirittopenalecontemporaneo.it
[5] Ibidem
[6] F. SOVIERO, Riforma della prescrizione: è la terapia più efficace e adeguata per curare l’ammalato? Analisi di un istituto in continuo mutamento, in simoneconcorsi.it/riforma-prescrizione-2020
[7] Ibidem
[8] Ibidem
[9] E. DOLCINI, G. MARINUCCI, G.L. GATTA, Codice penale commentato, le modifiche introdotte dalla riforma Cartabia, V ed.
[10] Ibidem
[11] Prescrizione, anche il più celebre avvocato italiano boccia Cartabia; ilfattoquotidiano.it