Indice
1. Premessa
2. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione
2.1 La forza maggiore
2.2. Le varie ipotesi di risoluzione del contratto
2.3 Il caso delle locazioni commerciali
3. L’approccio casistico e la rilevanza della buona fede
1. Premessa
Il presente lavoro è finalizzato ad esaminare l’applicabilità dell’istituto civilistico dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione durante la vigenza della normativa emergenziale derivante dalla diffusione del virus Covid-19. In particolare, l’indagine è volta a stabilire se lo stato di pandemia enunciato dall’OMS costituisca ex se giusta causa di inadempimento non imputabile al debitore, tale da esonerarlo da responsabilità. Nelle difficoltà sociali ed economiche di questo peculiare periodo storico, si evidenzia altresì la necessità di un ricorso corposo alla buona fede nei rapporti tra le parti, al fine di addivenire ad accordi transattivi che riducano domande giudiziali e/o scioglimenti dei vincoli contrattuali.
2. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione
L’impossibilità sopravvenuta della prestazione rientra tra i modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento. Ai sensi dell’art. 1256, comma 1 c.c., “l’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”. Ai fini dell’estinzione dell’obbligazione, l’impossibilità deve intendersi in senso assoluto ed oggettivo e non ricollegabile causalmente al debitore. È interessante segnalare come la giurisprudenza, in tema di prova della non imputabilità in capo al debitore, abbia sancito il principio per cui quest’ultimo non possa invocare la predetta impossibilità con riferimento al c.d. factum principis sopravvenuto che fosse ragionevolmente prevedibile secondo la comune diligenza[1].
La prova della sopravvenuta impossibilità non è quindi così agevole per il debitore anche se, specialmente con riferimento al factum principis (ordine o divieto dell’autorità amministrativa), il Covid-19 ha creato notevoli interrogativi giuridici per la conservazione dei contratti in essere. In tal senso, il c.d. “Cura Italia” (D.L. 17 marzo 2020 n. 18) si pone infatti come provvedimento dell’autorità amministrativa che trova nell’art. 91 una norma di rilevante impatto sul tema. La menzionata norma stabilisce che il rispetto delle misure di contenimento del contagio sarà sempre valutato dai giudici “ai fini dell’esclusione della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze e di penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Il problema, dunque, consiste nel determinare se i provvedimenti governativi e lo stato di emergenza sanitaria possano integrare la c.d. forza maggiore e consentire così al debitore di andare esente da responsabilità per l’inadempimento.
2.1. La forza maggiore
Nel nostro ordinamento, in ambito civilistico non esiste una definizione codificata di forza maggiore. La si potrebbe mutuare dal diritto penale a mezzo del brocardo latino “vis maior cui resisti non potest”, un evento cioè estraneo alla sfera di controllo del soggetto agente nonché totalmente imprevedibile. Ci viene incontro in tale senso la Convenzione di Vienna del 1980 sui contratti internazionali, che prevede l’esonero da responsabilità di una parte qualora dimostri l’estraneità, l’imprevedibilità e l’insormontabilità di un dato evento rispetto alla sua sfera di controllo.
Con riferimento all’estraneità ed all’imprevedibilità, nulla quaestio: una simile pandemia, con gli effetti devastanti che sta producendo su salute ed economia, risultava pressoché inimmaginabile fino a pochi mesi fa. Più di un dubbio sovviene invece in relazione all’insormontabilità, giacché la questione ruota essenzialmente attorno ad un punto: l’impossibilità di eseguire correttamente la prestazione alla luce delle limitazioni derivanti dal Covid-19, è di carattere definitivo o temporaneo? Qualora si dovesse propendere per la prima opzione, la quale astrattamente appare tuttavia di difficile dimostrazione, lo stato di emergenza sanitaria ed i relativi provvedimenti governativi integrerebbero il concetto di forza maggiore con conseguente esclusione della responsabilità in capo al debitore. Se, a contrario, si optasse per la temporaneità della pandemia, l’esenzione da responsabilità per il debitore riguarderebbe solo il mero ritardo, con la conseguenza che una volta cessata l’emergenza sanitaria, la prestazione dovrebbe essere eseguita immediatamente (salvo accordi tra le parti).
2.2. Le varie ipotesi di risoluzione del contratto ai tempi del Covid-19
Gli schemi astrattamente previsti dal codice civile mal si conciliano – o quantomeno difficilmente – con la peculiare situazione venutasi a creare a seguito del diffondersi della pandemia. L’interesse dei contraenti, infatti, a maggior ragione in questo generale clima di incertezza, è convergente verso una prosecuzione del rapporto e non già verso una risoluzione.
Si potrebbe agire ex art. 1464 c.c. per ottenere la risoluzione del contratto per impossibilità parziale sopravvenuta della prestazione; tuttavia la circostanza sopravvenuta dovrebbe rivestire i caratteri dell’assolutezza e definitività, che con riferimento al Covid-19 – si spera – appare di difficile prova.
Altrettanto complessa è la strada della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c., che riguarda i contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita. Solo la parte che subisce l’eccessiva onerosità – il debitore – può agire in giudizio secondo questo schema normativo. Di conseguenza, qualora il debitore volesse solo sospendere o ridurre i pagamenti, non potrebbe raggiungere il suo scopo attraverso il rimedio ex art 1467 c.c., dal momento che il creditore potrebbe esimersi dall’offerta di modifica delle condizioni del contratto in ottica equitativa, come previsto dal comma 3 della citata norma.
Il Covid-19 costituisce dunque un’ipotesi di impedimento tale da esonerare da responsabilità per il ritardo il debitore, ma non idonea ai fini della liberazione dell’obbligazione, poiché transitoria.
2.3. Il caso delle locazioni commerciali
Come noto, uno dei settori più colpiti dalla pandemia è quello della ristorazione. Molto attuale al riguardo è il problema giuridico della corresponsione dei canoni di locazione da parte dei gestori delle varie attività.
Le locazioni commerciali trovano disciplina nella c.d. legge sull’equo canone (L. 392/78). All’interno di tale provvedimento, è sempre previsto il diritto di recesso in capo al conduttore con un preavviso di almeno sei mesi, durante i quali il canone di locazione dovrà essere regolarmente corrisposto. È indubbio che tale strada risulti di difficile percorrenza considerata la transitorietà della pandemia. Si potrebbe agire ex art. 1467 c.c., ma il rapporto rimarrebbe in essere solo qualora il locatore fosse disposto a ridurre equamente i canoni.
In tale contesto si è inserita un’interessantissima ordinanza del Tribunale di Roma[2] destinata a rappresentare un importante punto di riferimento per le successive pronunce. La statuizione in esame ha sancito la riduzione dei canoni di locazione in favore di un gestore di un’attività di ristorazione fino al mese di marzo 2021 sulla base del dovere generale di buona fede oggettiva nell’esecuzione del contratto. Proprio il concetto di buona fede permette l’introduzione del successivo tema.
3. L’approccio casistico e la rilevanza della buona fede
La succitata ordinanza del Tribunale di Roma esprime una forza giuridica notevole e si pone come espressione di civiltà in un periodo particolarmente complesso sotto tutti i punti di vista. Il legislatore – consapevolmente o meno – si è limitato a prevedere un credito d’imposta da utilizzare in compensazione con altri tributi solo per determinati immobili e, come anticipato, un esonero pressoché automatico da responsabilità per il debitore inadempiente che agisca rispettando le misure di contenimento del contagio. Nessuna previsione, invece, per la regolamentazione dei contratti in essere. Di conseguenza, l’unico vero strumento a disposizione delle parti per ricondurre ad equità rapporti “squilibrati”, è ravvisabile nella correttezza e collaborazione reciproca delle parti, cioè in quel dovere generale di buona fede nell’esecuzione del contratto come riportato efficacemente dalla menzionata ordinanza.
Una soluzione auspicabile nell’ottica di un comportamento delle parti secondo buona fede e correttezza, è rappresentata da accordi transattivi volti ad esempio alla negoziazione dei canoni di locazioni ovvero alla dilazione degli stessi in un arco temporale maggiore. Risulta fondamentale, alla luce delle considerazioni espresse nel presente lavoro, un approccio casistico volto ad analizzare le caratteristiche di ogni singolo rapporto negoziale. Data la peculiarità del momento storico, il buon senso sembra davvero costituire lo strumento più solido a disposizione delle parti.
[1] Cass. N. 14915/2018
[2] Tribunale di Roma, sez. VI, ordinanza 27 agosto 2020. Il testo integrale è rinvenibile al seguente link: https://arsg.it/?p=2380.