La violazione della sovranità di uno Stato

Articolo a cura dell’Avv. Gianluca Romano

Gli eventi che stiamo vivendo in questo periodo, relativamente alla vicenda Russia-Ucraina ci portano, in maniera inequivocabile, ad effettuare una riflessione: “In un contesto moderno, possono ancora avvenire occupazioni militari di uno Stato con un chiaro fine espansionistico? Può uno Stato violare la sovranità di un altro Stato?”

La violazione della sovranità di uno stato

Il Presidente Putin, al fine di giustificare la propria invasione, durante il suo celebre discorso, ha accusato l’Ucraina di aver posto in essere un “genocidio” nei confronti delle minoranze del Donbass, di avere un governo in mano a gruppi “neo-nazisti”.
La Russia, quindi, ha riconosciuto le Repubbliche Popolari” di Donetsk e di Lugansk e disposto il dispiegamento delle forze, in un’operazione di “peacekeeping”.
La Russia di Putin, tuttavia, non si è soltanto limitata ad occupare le suddette regioni, ma ha esteso l’attacco a tutta l’Ucraina, al fine di insediare un nuovo governo “fantoccio” e dominare l’intera area. Detto attacco potrebbe rappresentare soltanto l’inizio, atteso che, molto probabilmente, l’obiettivo ultimo di Putin potrebbe essere quello di ripristinare l’antica area di influenza dell’URSS.
Nel caso di specie, infatti, un soggetto autonomo, l’Ucraina, riconosciuto nella sua piena integrità territoriale e dei confini dalle Nazioni Unite, dalle altre principali organizzazioni internazionali e dalla comunità degli Stati, è stato militarmente invaso da un altro Paese, la Russia.
La Carta delle Nazioni Unite, infatti, all’articolo 2 paragrafo 4 impone, in particolare, agli Stati di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza dirette “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”.
Indubbiamente, tale articolo non può essere violato sulla base delle narrazioni sulla difesa delle minoranze di etnia russa che, in nessun caso, non possono giustificare alcun legittimo casus belli, neanche in nome di un supposto principio di “autodeterminazione dei popoli”.
Nel diritto internazionale, infatti, il richiamo a tale principio, che legittima le c.d. “guerre di liberazione nazionali”, è ammesso solo in determinate circostanze, ovverosia nell’ipotesi in  cui risulti acclarato che “i popoli” sono costretti a lottare “contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro regimi razzisti”.
La regola si rinviene in particolare nel I Protocollo addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra, all’articolo 1 del paragrafo 4, e nel Patto sui diritti civili e politici del 1996, all’articolo 1.

Il riferimento alla nozione di “popolo” e il richiamo, ai soli casi indicati, esclude, pertanto, che il “diritto di autodeterminazione” possa essere esteso alle minoranze etniche, le quali possono reclamare comunque diritti civili e politici in forme di autonomia amministrativa e rappresentanza politica, senza porre però in discussione l’integrità dello Stato di appartenenza.
Salvo i casi citati di: dominazione coloniale, regime razzista, o occupazione straniera, nel diritto internazionale rimane inviolabile il principio della sovranità e della integrità territoriale degli Stati, e non può declinarsi un “diritto alla secessione”.
L’autodeterminazione non è quindi riconoscibile nemmeno a “movimenti secessionisti che facciano capo ad un popolo che coesiste insieme ad altri in uno Stato federale indipendente”.
I suddetti principi sono stati ribaditi  dalla Comunità internazionale  che, con l’approvazione dell’ 8 bis dello Statuto della Corte penale internazionale, ha definito con chiarezza il crimine di “aggressione internazionale”, inteso come “l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite”.
La norma, nel menzionare la Risoluzione 3314 (XXIX) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 14 dicembre 1974, enuclea poi quali condotte debbono considerarsi “atti di aggressione”, che è il caso di richiamare integralmente:

“a) l’invasione o l’attacco da parte di forze armate di uno Stato del territorio di un altro Stato o qualunque occupazione militare, anche temporanea, che risulti da detta invasione o attacco o qualunque annessione, mediante l’uso della forza, del territorio di un altro Stato o di parte dello stesso;

  • il bombardamento da parte delle forze armate di uno Stato contro il territorio di un altro Stato o l’impiego di qualsiasi altra arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato;
  • il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato; d) l’attacco da parte delle forze armate di uno Stato contro le forze armate terrestri, navali o aeree di un altro Stato o contro la sua flotta navale o aerea;
  • l’utilizzo delle forze armate di uno Stato che si trovano nel territorio di un altro Stato con l’accordo di quest’ultimo, in violazione delle condizioni stabilite nell’accordo, o qualunque prolungamento della loro presenza in detto territorio dopo il termine dell’accordo;
  • il fatto che uno Stato permetta che il suo territorio, messo a disposizione di un altro Stato, sia utilizzato da quest’ultimo per commettere un atto di aggressione contro uno Stato terzo;
  • l’invio da parte di uno Stato, o in suo nome, di bande, gruppi, forze irregolari o mercenari armati che compiano atti di forza armata contro un altro Stato di gravità tale da essere equiparabili agli atti sopra citati o che partecipino in modo sostanziale a detti atti.

In ultima analisi, è il caso di menzionare gli obblighi internazionali, tuttora vigenti e pienamente validi perché regolarmente sottoscritti negli Accordi di Helsinki del 1972, allorquando con la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) è stato aperto il dialogo tra Est e Ovest.
La conseguenza di tali accordi è stata quella di stabilire un sistema permanente di “misure di fiducia e sicurezza”, riguardanti, altresì, precise limitazioni negli armamenti, negli schieramenti e nelle esercitazioni militari, relativamente all’ Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), di cui fa parte anche la Russia di Putin.
Il documento principale di questo importante quadro giuridico è, indubbiamente, l’Atto Finale di Helsinki in cui sono chiaramente tratteggiati principi e obblighi giuridici inderogabili, richiamati in alcuni specifici titoli, che è opportuno richiamare:

I. Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità;

  1. Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza;
  2. Inviolabilità delle frontiere;
  3. Integrità territoriale degli Stati;
  4. Risoluzione pacifica delle controversie
  5. Non intervento negli affari interni”.

Considerato, quanto innanzi, si evince che l’azione della Russia non può essere, in alcun modo, giustificabile sotto in punto di diritto, pertanto, la comunità internazionale non può esimersi da sanzionare tale comportamento, poiché, in difetto, si formerebbe un precedente, in palese violazione con le summenzionate norme di diritto internazionale.
Attualmente sono state adottate soltanto delle sanzioni di carattere economico, tuttavia, non si esclude un intervento militare della NATO.
Relativamente a tale ultima ipotesi, più volte richiesta dal Governo ucraino, occorre evidenziare che, attualmente, mancato i presupposti per ricorrere all’articolo 5, in particolare quello riconducibile alla clausola di difesa che autorizza l’intervento militare, che testualmente recita:

«Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica.».

Come a tutti noto, l’Ucraina non fa parte della NATO, pertanto, sulla base di tale normativa, l’intervento miliare risulta essere precluso.
Al fine di effettuare un’analisi completa, occorre evidenziare che molti Paesi membri (in particolare quelli facenti parte del vecchio “Blocco Comunista”) hanno chiesto di intervenire, in virtù dell’articolo 4, secondo il quale: “Le parti si consulteranno ogni volta che, nell’opinione di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata”.
Sulla base della richiamata normativa, gli ex Paesi “sovietici” (Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania) insistono per l’intervento militare, in quanto, si sentono in pericolo davanti alla strategia aggressiva di Mosca e non vogliono rivivere l’incubo dell’egemonia russa che, come noto, ha comportato la limitazione alle libertà personali.
Risulta essere pacifico, quindi, che la NATO potrebbe intervenire a difesa dell’Ucraina, non in quanto membro dell’Alleanza, ma a tutela di quei Paesi membri, indirettamente minacciati dalla Russia.
È opinione prevalente, nell’ambito della diplomazia internazionale, che il Presidente Putin voglia ricostituire l’antica zona di influenza sovietica, a danno delle nuove democrazie dell’Est Europa. Negli oltre vent’anni in cui è stato al potere, Putin è stato associato al periodo sovietico per diversi motivi: innanzitutto, essendo nato nel 1952 , è un uomo che si è formato politicamente in quell’epoca, e fece notoriamente parte del temuto servizio segreto sovietico, il KGB; inoltre, da quando è Presidente, ha accentrato il potere su di sé attraverso modalità e strumenti non molto differenti da quelli utilizzati prima del 1991, l’anno in cui si dissolse l’Unione Sovietica.
Putin ha fatto poco o nulla per smantellare la struttura statale russa, formatasi in decenni di regime sovietico, e per portare il paese verso qualcosa che assomigliasse alle democrazie occidentali, un processo che era invece stato avviato dall’ultimo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbaciov e dal predecessore di Putin, Boris Yeltsin.
Ad ogni buon conto, se per alcuni aspetti Putin si richiama a una tradizione sovietica, per altri versi si ispira al periodo antecedente a quello comunista. Come ha precisato lo storico di Harvard, Sergei Plokhy, Putin, di fatto, vuole far tornare la storia al periodo pre-rivoluzionario: «Ha un’idea molto imperialista della nazione russa, che vede composta da russi, ucraini e bielorussi. Gli ultimi due non hanno il diritto di esistere separatamente. Siamo quasi tornati alla metà dell’Ottocento, quando i funzionari imperiali cercavano di intralciare lo sviluppo culturale ucraino». Secondo questa visione, l’atteggiamento interventista che Putin ha avuto nelle ex repubbliche sovietiche andrebbe visto come un tentativo di ripristinare l’antica egemonia della Russia zarista.
Putin, infatti, nel recente passato,  ha dimostrato di voler mantenere uno stretto controllo anche  nel Caucaso e in altre zone che erano appartenute all’impero zarista, contribuendo alla formazione di piccole repubbliche filorusse non riconosciute dalla comunità internazionale: in Georgia (Abcasia e Ossezia del Sud), in Azerbaijan (Nagorno Karabakh) e in Moldavia (Transnistria).
Indubbiamente, la sopra descritta politica estera risulta essere perpetrata in piena violazione della sovranità di altre nazioni, pertanto, palesemente antigiuridica ed intollerabile dalla comunità internazionale.

La violazione della sovranità di uno Stato

Il Presidente Putin, al fine di giustificare la propria invasione, durante il suo celebre discorso, ha accusato l’Ucraina di aver posto in essere un “genocidio” nei confronti delle minoranze del Donbass, di avere un governo in mano a gruppi “neo-nazisti”.
La Russia, quindi, ha riconosciuto le Repubbliche Popolari” di Donetsk e di Lugansk e disposto il dispiegamento delle forze, in un’operazione di “peacekeeping”.
La Russia di Putin, tuttavia, non si è soltanto limitata ad occupare le suddette regioni, ma ha esteso l’attacco a tutta l’Ucraina, al fine di insediare un nuovo governo “fantoccio” e dominare l’intera area. Detto attacco potrebbe rappresentare soltanto l’inizio, atteso che, molto probabilmente, l’obiettivo ultimo di Putin potrebbe essere quello di ripristinare l’antica area di influenza dell’URSS.
Nel caso di specie, infatti, un soggetto autonomo, l’Ucraina, riconosciuto nella sua piena integrità territoriale e dei confini dalle Nazioni Unite, dalle altre principali organizzazioni internazionali e dalla comunità degli Stati, è stato militarmente invaso da un altro Paese, la Russia.
La Carta delle Nazioni Unite, infatti, all’articolo 2 paragrafo 4 impone, in particolare, agli Stati di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza dirette “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”.
Indubbiamente, tale articolo non può essere violato sulla base delle narrazioni sulla difesa delle minoranze di etnia russa che, in nessun caso, non possono giustificare alcun legittimo casus belli, neanche in nome di un supposto principio di “autodeterminazione dei popoli”.
Nel diritto internazionale, infatti, il richiamo a tale principio, che legittima le c.d. “guerre di liberazione nazionali”, è ammesso solo in determinate circostanze, ovverosia nell’ipotesi in  cui risulti acclarato che “i popoli” sono costretti a lottare “contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro regimi razzisti”.
La regola si rinviene in particolare nel I Protocollo addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra, all’articolo 1 del paragrafo 4, e nel Patto sui diritti civili e politici del 1996, all’articolo 1.

Il riferimento alla nozione di “popolo” e il richiamo, ai soli casi indicati, esclude, pertanto, che il “diritto di autodeterminazione” possa essere esteso alle minoranze etniche, le quali possono reclamare comunque diritti civili e politici in forme di autonomia amministrativa e rappresentanza politica, senza porre però in discussione l’integrità dello Stato di appartenenza.
Salvo i casi citati di: dominazione coloniale, regime razzista, o occupazione straniera, nel diritto internazionale rimane inviolabile il principio della sovranità e della integrità territoriale degli Stati, e non può declinarsi un “diritto alla secessione”.
L’autodeterminazione non è quindi riconoscibile nemmeno a “movimenti secessionisti che facciano capo ad un popolo che coesiste insieme ad altri in uno Stato federale indipendente”.
I suddetti principi sono stati ribaditi  dalla Comunità internazionale  che, con l’approvazione dell’ 8 bis dello Statuto della Corte penale internazionale, ha definito con chiarezza il crimine di “aggressione internazionale”, inteso come “l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite”.
La norma, nel menzionare la Risoluzione 3314 (XXIX) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 14 dicembre 1974, enuclea poi quali condotte debbono considerarsi “atti di aggressione”, che è il caso di richiamare integralmente:

“a) l’invasione o l’attacco da parte di forze armate di uno Stato del territorio di un altro Stato o qualunque occupazione militare, anche temporanea, che risulti da detta invasione o attacco o qualunque annessione, mediante l’uso della forza, del territorio di un altro Stato o di parte dello stesso;

  • il bombardamento da parte delle forze armate di uno Stato contro il territorio di un altro Stato o l’impiego di qualsiasi altra arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato;
  • il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato; d) l’attacco da parte delle forze armate di uno Stato contro le forze armate terrestri, navali o aeree di un altro Stato o contro la sua flotta navale o aerea;
  • l’utilizzo delle forze armate di uno Stato che si trovano nel territorio di un altro Stato con l’accordo di quest’ultimo, in violazione delle condizioni stabilite nell’accordo, o qualunque prolungamento della loro presenza in detto territorio dopo il termine dell’accordo;
  • il fatto che uno Stato permetta che il suo territorio, messo a disposizione di un altro Stato, sia utilizzato da quest’ultimo per commettere un atto di aggressione contro uno Stato terzo;
  • l’invio da parte di uno Stato, o in suo nome, di bande, gruppi, forze irregolari o mercenari armati che compiano atti di forza armata contro un altro Stato di gravità tale da essere equiparabili agli atti sopra citati o che partecipino in modo sostanziale a detti atti.

In ultima analisi, è il caso di menzionare gli obblighi internazionali, tuttora vigenti e pienamente validi perché regolarmente sottoscritti negli Accordi di Helsinki del 1972, allorquando con la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) è stato aperto il dialogo tra Est e Ovest.
La conseguenza di tali accordi è stata quella di stabilire un sistema permanente di “misure di fiducia e sicurezza”, riguardanti, altresì, precise limitazioni negli armamenti, negli schieramenti e nelle esercitazioni militari, relativamente all’ Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), di cui fa parte anche la Russia di Putin.
Il documento principale di questo importante quadro giuridico è, indubbiamente, l’Atto Finale di Helsinki in cui sono chiaramente tratteggiati principi e obblighi giuridici inderogabili, richiamati in alcuni specifici titoli, che è opportuno richiamare:

I. Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità;

  1. Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza;
  2. Inviolabilità delle frontiere;
  3. Integrità territoriale degli Stati;
  4. Risoluzione pacifica delle controversie
  5. Non intervento negli affari interni”.

Considerato, quanto innanzi, si evince che l’azione della Russia non può essere, in alcun modo, giustificabile sotto in punto di diritto, pertanto, la comunità internazionale non può esimersi da sanzionare tale comportamento, poiché, in difetto, si formerebbe un precedente, in palese violazione con le summenzionate norme di diritto internazionale.
Attualmente sono state adottate soltanto delle sanzioni di carattere economico, tuttavia, non si esclude un intervento militare della NATO.
Relativamente a tale ultima ipotesi, più volte richiesta dal Governo ucraino, occorre evidenziare che, attualmente, mancato i presupposti per ricorrere all’articolo 5, in particolare quello riconducibile alla clausola di difesa che autorizza l’intervento militare, che testualmente recita:

«Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica.».

Come a tutti noto, l’Ucraina non fa parte della NATO, pertanto, sulla base di tale normativa, l’intervento miliare risulta essere precluso.
Al fine di effettuare un’analisi completa, occorre evidenziare che molti Paesi membri (in particolare quelli facenti parte del vecchio “Blocco Comunista”) hanno chiesto di intervenire, in virtù dell’articolo 4, secondo il quale: “Le parti si consulteranno ogni volta che, nell’opinione di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata”.
Sulla base della richiamata normativa, gli ex Paesi “sovietici” (Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania) insistono per l’intervento militare, in quanto, si sentono in pericolo davanti alla strategia aggressiva di Mosca e non vogliono rivivere l’incubo dell’egemonia russa che, come noto, ha comportato la limitazione alle libertà personali.
Risulta essere pacifico, quindi, che la NATO potrebbe intervenire a difesa dell’Ucraina, non in quanto membro dell’Alleanza, ma a tutela di quei Paesi membri, indirettamente minacciati dalla Russia.
È opinione prevalente, nell’ambito della diplomazia internazionale, che il Presidente Putin voglia ricostituire l’antica zona di influenza sovietica, a danno delle nuove democrazie dell’Est Europa. Negli oltre vent’anni in cui è stato al potere, Putin è stato associato al periodo sovietico per diversi motivi: innanzitutto, essendo nato nel 1952 , è un uomo che si è formato politicamente in quell’epoca, e fece notoriamente parte del temuto servizio segreto sovietico, il KGB; inoltre, da quando è Presidente, ha accentrato il potere su di sé attraverso modalità e strumenti non molto differenti da quelli utilizzati prima del 1991, l’anno in cui si dissolse l’Unione Sovietica.
Putin ha fatto poco o nulla per smantellare la struttura statale russa, formatasi in decenni di regime sovietico, e per portare il paese verso qualcosa che assomigliasse alle democrazie occidentali, un processo che era invece stato avviato dall’ultimo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbaciov e dal predecessore di Putin, Boris Yeltsin.
Ad ogni buon conto, se per alcuni aspetti Putin si richiama a una tradizione sovietica, per altri versi si ispira al periodo antecedente a quello comunista. Come ha precisato lo storico di Harvard, Sergei Plokhy, Putin, di fatto, vuole far tornare la storia al periodo pre-rivoluzionario: «Ha un’idea molto imperialista della nazione russa, che vede composta da russi, ucraini e bielorussi. Gli ultimi due non hanno il diritto di esistere separatamente. Siamo quasi tornati alla metà dell’Ottocento, quando i funzionari imperiali cercavano di intralciare lo sviluppo culturale ucraino». Secondo questa visione, l’atteggiamento interventista che Putin ha avuto nelle ex repubbliche sovietiche andrebbe visto come un tentativo di ripristinare l’antica egemonia della Russia zarista.
Putin, infatti, nel recente passato,  ha dimostrato di voler mantenere uno stretto controllo anche  nel Caucaso e in altre zone che erano appartenute all’impero zarista, contribuendo alla formazione di piccole repubbliche filorusse non riconosciute dalla comunità internazionale: in Georgia (Abcasia e Ossezia del Sud), in Azerbaijan (Nagorno Karabakh) e in Moldavia (Transnistria).
Indubbiamente, la sopra descritta politica estera risulta essere perpetrata in piena violazione della sovranità di altre nazioni, pertanto, palesemente antigiuridica ed intollerabile dalla comunità internazionale.