L’ISTAT ci dice che a dicembre su 101mila nuovi disoccupati, 99mila sono donne. Complessivamente, dei 444mila occupati in meno registrati in Italia in tutto il 2020, il 70% è costituito da donne.
Questo crollo occupazionale in Italia ha è collegato alla tipologia di lavoro svolto: le donne, infatti, sono impiegate maggiormente nei settori che più di tutti stanno soffrendo, come, ad esempio, quello dei servizi e quello domestico, spesso con contratti che danno poca sicurezza e stabilità, come il part-time. Per questo oggi le donne sono le prime “vittime sacrificali” dei datori di lavoro. Si tratta di un fenomeno a cui, purtroppo, nemmeno il blocco dei licenziamenti è riuscito a mettere un freno.
Il neo Presidente del Consiglio Mario Draghi ha dedicato una parte del suo discorso di insediamento alla parità di genere nel mondo del lavoro evidenziando come:
“L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi”.
Quote rosa
Con l’espressione “quote rosa” si fa riferimento all’imposizione di provvedimenti nei consigli di amministrazione o nelle sedi istituzionali allo scopo di garantire una certa percentuale di donne. Il fine delle quote rosa è quindi quello di sanare uno squilibrio di genere e quindi di favorire una parità che al momento non è ancora radicata.
“Non siamo una specie protetta, non abbiamo bisogno delle quote rosa”.
“Non vogliamo essere scelte per il genere, ma per le capacità”.
Persino Draghi nel suo discorso programmatico ha strizzato l’occhio ai detrattori delle quote rosa sostenendo che “parità di genere non significa un farisaico rispetto delle quote rosa”.
Come donne non ci piace sentirci “favorite” e prendere atto del fatto che serve una legge per accedere alla politica o ai piani alti delle aziende. Diventa una questione di meritocrazia e di chi sostiene che le persone andrebbero scelte per le loro capacità, senza nemmeno guardare il loro genere di appartenenza. Se questo è lo scenario a cui tutte aspiriamo, dobbiamo prendere atto che ancora il genere è un fattore che gioca un ruolo significativo nella carriera lavorativa: secondo l’ISTAT la percentuale di donne laureate supera quella degli uomini mentre, secondo Almalaurea, le studentesse registrano risultati più brillanti nel corso del percorso formativo. Non è credibile che le donne non “riescano” a raggiungere nel mondo del lavoro gli stessi livelli degli uomini per mancanza di capacità.
Le quote di genere hanno allora un senso se si attribuisce loro una funzione pedagogica nel senso di supportare un cambiamento di mentalità.
Differenze salariali
È un dato di fatto che le donne vengono pagate meno degli uomini. Questa circostanza è talmente nota che nel mondo anglosassone ha assunto un nome specifico: si parla infatti di gender pay gap (divario salariale).
In Europa, secondo Eurostat, le donne guadagnano il 16% in meno rispetto ai colleghi maschi.
E l’Italia? Secondo i dati Eurostat il gender pay gap in Italia è del 17,1% nel settore privato e del 3,2% nel pubblico. Secondo il Global Gender Gap Report 2020, il Bel Paese ha perso sei posizioni nella classifica globale sulla parità salariale: dalla 70esima alla 76esima, per un guadagno annuo medio di circa 17.900 euro contro i 31.600 degli uomini, e molte più ore lavorate (gratis) se contiamo l’impegno domestico.
Pensiamo ad un uomo e una donna che, alla stessa età, entrano nel mondo del lavoro con pari compenso; la donna però, magari, fa un figlio, solo lei prende congedi parentali, rinuncia a straordinari e trasferte e magari chiede il part-time. Un quarto delle donne smette di lavorare. Alla fine, la donna ha il 37% di pensione in meno.
Linda Laura Sabbadini (direttrice centrale dell’ISTAT per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche) ha evidenziato come la maggior parte delle donne si concentra in quelli che sono spesso i settori meno remunerati, ma con orari che favoriscono il bilanciamento tra vita privata e professionale. Complici anche gli stereotipi che, si sa, sono duri a morire, e secondo cui esisterebbero ancora lavori “femminili” e “maschili”.
Diverse stime dicono inoltre che a parità di carriera, ruolo e anzianità il pay gap è presente e si aggira intorno al 5%. La disparità di trattamento è evidente già a inizio carriera, tra le neolaureate. Con l’aumento dell’anzianità di servizio il gap aumenta.
Il tasso di lavoro autonomo in Italia è fra i più alti dei paesi Ocse (16% per le donne e 26% per gli uomini). Anche in questo settore il divario di genere nel reddito è molto ampio. Secondo l’Ocse le lavoratrici autonome italiane guadagnano il 54% in meno rispetto ai colleghi uomini. Le avvocate guadagnano in media un terzo dei colleghi, le notaie la metà: un po’ perché c’è la tendenza a farsi pagare meno, un po’ perché la scelta di dedicarsi ad un lavoro autonomo è spesso dettata dalla possibilità di orari più flessibili per poter dedicare più tempo alla famiglia.
Possiamo osservare quindi come le donne italiane scontino un triplice svantaggio:
- moltissime non entrano neppure nel mondo del lavoro retribuito;
- chi ci entra in media lavorerà meno ore e prenderà meno benefit retributivi per occuparsi (gratuitamente) della famiglia;
- sono pagate meno, in media, per ora lavorata a parità di ruolo.
Secondo OXFAM, ogni giorno nel mondo le donne svolgono 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura a titolo gratuito. In Italia per curare la famiglia, il 38,3% delle donne ha modificato il suo impegno lavorativo.
Una possibile soluzione?
La legge di Bilancio 2021 ha previsto uno sgravio contributivo totale per le assunzioni di donne lavoratrici svantaggiate riconosciuto ai datori di lavoro del settore privato che assumano a tempo determinato o indeterminato nonché in caso di trasformazioni a tempo indeterminato di un precedente rapporto agevolato. Lo sgravio contributivo è pari al 100% con il limite di 6.000 euro annui.
Si tratta di un primo passo (a quanto pare necessario) per rimediare alla difficile situazione che abbiamo toccato con mano nel 2020.