Divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi: un “Cavallo pazzo”

Articolo a cura dell’Avv. Domenico Palmisani Battaglia

Soltanto a distanza di pochi mesi dall’intervento garantista della Corte di Cassazione nella sua composizione più autorevole, reso con la sentenza n. 51/2020, depositata il 2.1.2020, si registra il recentissimo arresto del Tribunale di Milano che, nel decidere una vicenda cautelare, con ordinanza del 5 Ottobre scorso disattende parzialmente il principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite Cavallo.

Cavallo pazzo

Un passo indietro: il Tribunale di Bergamo, prima, e la Corte di Appello di Brescia, condannavano il sig. Cavallo Vito Antonio per i reati di peculato, falso ideologico e falso materiale in atto pubblico.
La base probatoria dell’affermazione di responsabilità era data dai risultati delle captazioni disposte nell’ambito di diversa indagine a carico di altro soggetto, rispetto al quale i Giudici di primo e secondo grado hanno ravvisato un collegamento probatorio ed investigativo.
I difensori del sig. Cavallo proponevano ricorso per Cassazione, sostenendo l’uso illegittimo di quelle intercettazioni in qualsiasi reato  ipoteticamente ascrivibile nel corso del filone investigativo, così vanificando la tenuta dell’impianto accusatorio.
Chiamate a dirimere il  contrasto  interpretativo sulla  questione  “se il  divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le intercettazioni siano state disposte, di cui all’art. 270 c.p.p., riguardi anche i reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazione”,  le  Sezioni  Unite  hanno  concluso   che   il   divieto   in parola non opera con riferimento ai risultati relativi a reati connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata disposta, sempre a condizione del rispetto dei limiti previsti dall’art. 266 c.p.p.
In altri termini, ci si è chiesti – ed il dibattito è tuttora acceso – quale sia la esatta portata del ”procedimento diverso” cui fa cenno l’art. 270 comma 1 c.p.p. al fine di stabilire il conseguente perimetro applicativo del divieto in questione.
Secondo il Supremo Collegio, come visto, affinché operi la inutilizzabilità occorre che le intercettazioni telefoniche siano state autorizzate in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell’ambito di altro, differente, anche se connesso, procedimento.
Non una diversità assoluta, dunque, bensì una diversità relativa nell’orbita dell’art. 270 c.p.p. che ha portato la Corte di Cassazione ad annullare con rinvio la sentenza di condanna per peculato nei confronti del sig. Cavallo.
Il Tribunale di Milano, da par suo, si discosta dal principio di diritto “Cavallo” nella misura in cui subordina l’utilizzabilità delle intercettazioni, oltre al collegamento ex art. 12 c.p.p. anche alla circostanza che le stesse siano necessarie per accertare i delitti di cui all’art. 266 comma 1 c.p.p.
Nella vicenda sottoposta al suo vaglio, l’attività di captazione era  disposta a seguito di denuncia da parte di due dipendenti di alcune anomalie rilevate nell’ufficio provinciale milanese dell’Agenzia delle Entrate,  per  il reato di corruzione.
L’attività investigativa aveva fatto emergere anche l’ipotesi di abuso d’ufficio ma il Gip aveva ritenuto non utilizzabili gli esiti delle intercettazioni proprio in applicazione di quanto statuito dalla sentenza Cavallo.
Come anticipato, il Tribunale milanese investito del riesame prende le distanze dalle valutazioni del Gip poiché – si legge nell’ordinanza – le autorizzazioni alle intercettazioni sono state disposte in relazione “ad una ipotesi investigativa del tutto unitaria ovvero una diffusa illegalità all’interno dell’Agenzia delle Entrate “.
Sono tre le critiche argomentative mosse dai Giudici meneghini all’impianto motivazionale delle Sezioni Unite, ci si aggiunge un novum normativo.
In primis, il principio di diritto non è ritenuto pienamente condivisibile poiché “non si confronta con il consolidato orientamento giurisprudenziale” che condente di utilizzare i risultati delle intercettazioni anche in ulteriori ipotesi.
Sul punto, è agevole osservare come la Corte di Cassazione, sulla scorta di quanto le attribuisce la legge sul funzionamento  dell’ordinamento giudiziario, svolga una funzione nomofilattica ed unificatrice dell’interpretazione del diritto nazionale (art. 65 del R. D. 12/1941).
Ulteriore obiezione che il Tribunale di Milano avanza, concerne il contrasto tra lo “sbarramento individuato dalla Suprema Corte “e “le stesse premesse da cui la Corte muove per delineare i limiti di operatività del disposto di cui all’art. 270 c.p.p.
In disparte la tautologia di siffatto assunto, che, per ciò solo, lo  rende fallace, non può non rilevarsi – come già acutamente sottolineato dalla Corte Costituzione e da ampio versante della giurisprudenza di legittimità – che una trasformazione dell’ordinamento normativo tale da permettere la piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche nell’ambito di processi diversi da quello per il quale le stesse sono state legalmente autorizzate sarebbe, con ogni evidenza, contrastante con le garanzie poste dall’art. 15 Cost. a tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni, nonché con le garanzie sancite dall’art. 8 CEDU che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Se, invero, è viziata l’attività di captazione di un colloquio, a monte, non può – e non potrebbe opinarsi in senso contrario – essere consentita, a valle, l’utilizzabilità dei risultati ottenuti con un mezzo di ricerca della prova illegittimamente acquisiti, in ossequio a quanto dispone l’art. 191 c.p.p.
In materia, è notevole lo sforzo costante della giurisprudenza europea nel tentativo di compensare il deficit di salvaguardia della riservatezza della vita privata, spesso rimessa ad un’eccessiva discrezionalità dell’autorità giudiziaria (si pensi al c.d. pedinamento elettronico o al c.d. trojan).
Ancora, secondo il Tribunale del riesame di Milano, il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione nella vicenda del sig. Cavallo Vito Antonio, si porrebbe in distonia con il principio di non dispersione degli elementi di prova e con quello di uguale trattamento degli indagati nel medesimo procedimento.
Anche tale argomento appare poco persuasivo, atteso che gli elementi di prova – id est i risultati delle intercettazioni -sarebbero dispersi ove fossero legittimi; ove viziati, di contro, sarebbero tamquam non essent.
Non conducente, poi, appare il riferimento alla presunta disparità di trattamento se si considera che, ai sensi dell’art. 267 comma 1 c.p.p., l’attività di intercettazione costituisce un extrema ratio cui attingere “quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”.
Non la responsabilità personale, pertanto, quale ratio e presupposto delle captazioni, bensì i gravi indizi di un reato inteso quale fatto storico penalmente rilevante, con il logico corollario che non può – e non deve – assumere valore la posizione di diversi indagati nell’ambito di distinti procedimenti a norma dell’art. 270 c.p.p.
Da ultimo, il Giudice dell’ordinanza de libertate pone l’accento su un dato normativo sopravvenuto, offerto dal D.L. n. 161/19 convertito in L. n. 7/20, che ha modificato il tenore del comma 1 dell’art. 270 c.p.p.
Il legislatore, infatti, aggiungendo il requisito della rilevanza a quello della indispensabilità e rinviando ai reati indicati dall’art. 266 comma 1 c.p.p., avrebbe inteso restringere l’ambito operativo della norma e, di converso, estendere la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni anche in procedimenti diversi.
Il provvedimento cautelare emesso dai Giudici milanesi, che soffre una notevole influenza dottrinale, omette di considerare come il riferimento all’art. 266 c.p.p. fosse già contenuto nel principio di diritto sancito  dalle  Sezioni Unite Cavallo, il cui ultimo inciso recita “sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”.
Ciò significa che la più autorevole composizione della Corte  di Cassazione ha preso in esame la norma di apertura del capo del codice di procedura penale dedicato alle intercettazioni, dal che ne discende, a parere di chi scrive, la debolezza anche dell’ultimo motivo per· cui, nella prospettiva del Tribunale di Milano, applicare il dictum del Supremo Collegio sarebbe processualmente “illogico”
Ma illogico, ed anzi incostituzionale, sarebbe un’applicazione giurisprudenziale che di fatto legittimasse l’autorizzazione in bianco delle intercettazioni.
Al contrario, si ritiene di dover sottolineare, in uno con la garanzia della sentenza a Sezioni Unite, l’ennesima infelice formulazione di una norma ad opera del legislatore, il quale ha palesato, anche nel caso di specie,  una  distanza siderale tra intenzione e risultato.
E, tuttavia, tale claudicanza normativa non deve necessariamente indurre a sollevare, in futuro, una questione di legittimità costituzionale poiché, come più volte ribadito dalla Consulta, in linea di principio le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime se è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma soltanto se è impossibile offrirne una lettura costituzionalmente orientata.

Altrimenti, il “Cavallo” rischia di imbizzarrire.

cavallo pazzo

Un passo indietro: il Tribunale di Bergamo, prima, e la Corte di Appello di Brescia, condannavano il sig. Cavallo Vito Antonio per i reati di peculato, falso ideologico e falso materiale in atto pubblico.
La base probatoria dell’affermazione di responsabilità era data dai risultati delle captazioni disposte nell’ambito di diversa indagine a carico di altro soggetto, rispetto al quale i Giudici di primo e secondo grado hanno ravvisato un collegamento probatorio ed investigativo.
I difensori del sig. Cavallo proponevano ricorso per Cassazione, sostenendo l’uso illegittimo di quelle intercettazioni in qualsiasi reato  ipoteticamente ascrivibile nel corso del filone investigativo, così vanificando la tenuta dell’impianto accusatorio.
Chiamate a dirimere il  contrasto  interpretativo sulla  questione  “se il  divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le intercettazioni siano state disposte, di cui all’art. 270 c.p.p., riguardi anche i reati non oggetto della intercettazione ab origine disposta e che, privi di collegamento strutturale, probatorio e finalistico con quelli invece già oggetto di essa, siano emersi dalle stesse operazioni di intercettazione”,  le  Sezioni  Unite  hanno  concluso   che   il   divieto   in parola non opera con riferimento ai risultati relativi a reati connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata disposta, sempre a condizione del rispetto dei limiti previsti dall’art. 266 c.p.p.
In altri termini, ci si è chiesti – ed il dibattito è tuttora acceso – quale sia la esatta portata del ”procedimento diverso” cui fa cenno l’art. 270 comma 1 c.p.p. al fine di stabilire il conseguente perimetro applicativo del divieto in questione.
Secondo il Supremo Collegio, come visto, affinché operi la inutilizzabilità occorre che le intercettazioni telefoniche siano state autorizzate in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell’ambito di altro, differente, anche se connesso, procedimento.
Non una diversità assoluta, dunque, bensì una diversità relativa nell’orbita dell’art. 270 c.p.p. che ha portato la Corte di Cassazione ad annullare con rinvio la sentenza di condanna per peculato nei confronti del sig. Cavallo.
Il Tribunale di Milano, da par suo, si discosta dal principio di diritto “Cavallo” nella misura in cui subordina l’utilizzabilità delle intercettazioni, oltre al collegamento ex art. 12 c.p.p. anche alla circostanza che le stesse siano necessarie per accertare i delitti di cui all’art. 266 comma 1 c.p.p.
Nella vicenda sottoposta al suo vaglio, l’attività di captazione era  disposta a seguito di denuncia da parte di due dipendenti di alcune anomalie rilevate nell’ufficio provinciale milanese dell’Agenzia delle Entrate,  per  il reato di corruzione.
L’attività investigativa aveva fatto emergere anche l’ipotesi di abuso d’ufficio ma il Gip aveva ritenuto non utilizzabili gli esiti delle intercettazioni proprio in applicazione di quanto statuito dalla sentenza Cavallo.
Come anticipato, il Tribunale milanese investito del riesame prende le distanze dalle valutazioni del Gip poiché – si legge nell’ordinanza – le autorizzazioni alle intercettazioni sono state disposte in relazione “ad una ipotesi investigativa del tutto unitaria ovvero una diffusa illegalità all’interno dell’Agenzia delle Entrate “.
Sono tre le critiche argomentative mosse dai Giudici meneghini all’impianto motivazionale delle Sezioni Unite, ci si aggiunge un novum normativo.
In primis, il principio di diritto non è ritenuto pienamente condivisibile poiché “non si confronta con il consolidato orientamento giurisprudenziale” che condente di utilizzare i risultati delle intercettazioni anche in ulteriori ipotesi.
Sul punto, è agevole osservare come la Corte di Cassazione, sulla scorta di quanto le attribuisce la legge sul funzionamento  dell’ordinamento giudiziario, svolga una funzione nomofilattica ed unificatrice dell’interpretazione del diritto nazionale (art. 65 del R. D. 12/1941).
Ulteriore obiezione che il Tribunale di Milano avanza, concerne il contrasto tra lo “sbarramento individuato dalla Suprema Corte “e “le stesse premesse da cui la Corte muove per delineare i limiti di operatività del disposto di cui all’art. 270 c.p.p.
In disparte la tautologia di siffatto assunto, che, per ciò solo, lo  rende fallace, non può non rilevarsi – come già acutamente sottolineato dalla Corte Costituzione e da ampio versante della giurisprudenza di legittimità – che una trasformazione dell’ordinamento normativo tale da permettere la piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche nell’ambito di processi diversi da quello per il quale le stesse sono state legalmente autorizzate sarebbe, con ogni evidenza, contrastante con le garanzie poste dall’art. 15 Cost. a tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni, nonché con le garanzie sancite dall’art. 8 CEDU che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Se, invero, è viziata l’attività di captazione di un colloquio, a monte, non può – e non potrebbe opinarsi in senso contrario – essere consentita, a valle, l’utilizzabilità dei risultati ottenuti con un mezzo di ricerca della prova illegittimamente acquisiti, in ossequio a quanto dispone l’art. 191 c.p.p.
In materia, è notevole lo sforzo costante della giurisprudenza europea nel tentativo di compensare il deficit di salvaguardia della riservatezza della vita privata, spesso rimessa ad un’eccessiva discrezionalità dell’autorità giudiziaria (si pensi al c.d. pedinamento elettronico o al c.d. trojan).
Ancora, secondo il Tribunale del riesame di Milano, il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione nella vicenda del sig. Cavallo Vito Antonio, si porrebbe in distonia con il principio di non dispersione degli elementi di prova e con quello di uguale trattamento degli indagati nel medesimo procedimento.
Anche tale argomento appare poco persuasivo, atteso che gli elementi di prova – id est i risultati delle intercettazioni -sarebbero dispersi ove fossero legittimi; ove viziati, di contro, sarebbero tamquam non essent.
Non conducente, poi, appare il riferimento alla presunta disparità di trattamento se si considera che, ai sensi dell’art. 267 comma 1 c.p.p., l’attività di intercettazione costituisce un extrema ratio cui attingere “quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”.
Non la responsabilità personale, pertanto, quale ratio e presupposto delle captazioni, bensì i gravi indizi di un reato inteso quale fatto storico penalmente rilevante, con il logico corollario che non può – e non deve – assumere valore la posizione di diversi indagati nell’ambito di distinti procedimenti a norma dell’art. 270 c.p.p.
Da ultimo, il Giudice dell’ordinanza de libertate pone l’accento su un dato normativo sopravvenuto, offerto dal D.L. n. 161/19 convertito in L. n. 7/20, che ha modificato il tenore del comma 1 dell’art. 270 c.p.p.
Il legislatore, infatti, aggiungendo il requisito della rilevanza a quello della indispensabilità e rinviando ai reati indicati dall’art. 266 comma 1 c.p.p., avrebbe inteso restringere l’ambito operativo della norma e, di converso, estendere la possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni anche in procedimenti diversi.
Il provvedimento cautelare emesso dai Giudici milanesi, che soffre una notevole influenza dottrinale, omette di considerare come il riferimento all’art. 266 c.p.p. fosse già contenuto nel principio di diritto sancito  dalle  Sezioni Unite Cavallo, il cui ultimo inciso recita “sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”.
Ciò significa che la più autorevole composizione della Corte  di Cassazione ha preso in esame la norma di apertura del capo del codice di procedura penale dedicato alle intercettazioni, dal che ne discende, a parere di chi scrive, la debolezza anche dell’ultimo motivo per· cui, nella prospettiva del Tribunale di Milano, applicare il dictum del Supremo Collegio sarebbe processualmente “illogico”
Ma illogico, ed anzi incostituzionale, sarebbe un’applicazione giurisprudenziale che di fatto legittimasse l’autorizzazione in bianco delle intercettazioni.
Al contrario, si ritiene di dover sottolineare, in uno con la garanzia della sentenza a Sezioni Unite, l’ennesima infelice formulazione di una norma ad opera del legislatore, il quale ha palesato, anche nel caso di specie,  una  distanza siderale tra intenzione e risultato.
E, tuttavia, tale claudicanza normativa non deve necessariamente indurre a sollevare, in futuro, una questione di legittimità costituzionale poiché, come più volte ribadito dalla Consulta, in linea di principio le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime se è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma soltanto se è impossibile offrirne una lettura costituzionalmente orientata.

Altrimenti, il “Cavallo” rischia di imbizzarrire.

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