1. Gli obbiettivi della Direttiva e gli strumenti per attuarli
La proposta normativa non mira a determinare un minimo salariale comune per tutti gli Stati membri, ma un quadro di principi omogenei atti a garantire una retribuzione adeguata ai lavatori a cui tutti i contraenti dovranno conformarsi.
Per far ciò, gli Stati avranno a disposizione due strumenti: la legislazione nazionale e la contrattazione collettiva.
Più in particolare, gli Stati ove siano già previsti salari minimi legali (21 su 27 paesi dell’Unione Europea) dovranno definire, anche con l’ausilio delle Parti sociali, criteri chiari per determinarli e aggiornali (almeno una volta ogni due anni, o al massimo ogni quattro anni per i Paesi che utilizzano un meccanismo di indicizzazione automatico); gli Stati in cui i salari vengono, invece, individuati dalla contrattazione collettiva (tra cui l’Italia), se aventi una copertura inferiore al 70%, dovranno intraprendere iniziative volte a promuovere detta contrattazione.
2. Il campo di applicazione
Per quel che emerge dalla bozza della Direttiva, e salvo estensioni da parte del legislatore nazionale, la stessa dovrebbe trovare applicazione nei confronti di tutti quei lavoratori che hanno “un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea” (Cfr. art. 2).
Tale disposizione mira ad includere nell’ambito di applicazione della disciplina i lavoratori non solo subordinati ma anche quelli c.d. “atipici” tra i quali rientrano i lavoratori domestici, a chiamata, intermittenti, a voucher, tramite piattaforma digitale, tirocinanti e apprendisti.
Resterebbero invece esclusi, per espressa indicazione da parte del Coniglio, i lavoratori “effettivamente autonomi” – rappresentanti una consistente fetta del mercato del lavoro (oltre 1/5) – i quali potrebbero giovarsi della disciplina del salario minimo solo a seguito di una riqualificazione del rapporto di lavoro.
3. I possibili effetti per l’ordinamento italiano
Già dai dati sopra illustrati, risulta evidente come tale intervento normativo, così come presentato, non dovrebbe avere alcuna incidenza diretta in Paesi, come lo è l’Italia, con un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore al 70% e che l’eventuale intervento da parte del Governo sarebbe frutto di una mera volontà politica di agire.
Ciò nonostante risulta interessante evidenziare i punti di criticità della Direttiva e gli effetti che questi potrebbero avere nel nostro ordinamento in caso di sua attuazione.
Importati conseguenze potrebbero essere connesse alla tipologia di strumento – tra quelli demandati agli Stati membri dalla Direttiva (legge o contrattazione collettiva) – che il nostro Legislatore nazionale potrebbe scegliere di utilizzare per attuare la Direttiva.
Se infatti si agisse tramite una legislazione nazionale – considerando anche il DDL fermo alla Commissione Lavoro del Senato – sorgerebbero dubbi circa la determinazione del quantum del salario minimo dal momento che, se troppo basso, disincentiverebbe i lavoratori e li indurrebbe ad accedere al reddito di cittadinanza e, se troppo alto, porterebbe ad una crescita esponenziale del lavoro sommerso nonché, in entrambi i casi, a possibili “competizioni” tra Stato e Parti sociali, certamente non salutari per il mercato del lavoro.
È necessario inoltre rilevare, come, quand’anche l’incremento della retribuzione oraria contribuisse in qualche misura a rendere ai lavoratori una vita più dignitosa, tale ultimo non comporterebbe, invece, alcun effettivo miglioramento a tutti quei rapporti di lavoro c.d. “poveri” – come quelli a tempo parziale, a chiamata e di somministrazione – caratterizzati in re ipsa da un orario lavorativo inidoneo all’ottenimento di uno stipendio dignitoso.
Sotto altro profilo, infine, occorre sottolineare come, nel nostro ordinamento, rientrino nella nozione di “retribuzione”, non solo il corrispettivo diretto per la prestazione resa dal lavoratore, ma anche ulteriori voci quali la tredicesima e la quattordicesima mensilità nonché il trattamento di fine rapporto. Tali componenti, in caso di aumento della retribuzione minima oraria subirebbero a loro volta un incremento, che andrebbe a gravare sull’assetto economico delle imprese.
Già nella relazione di accompagnamento del Consiglio si prevede, infatti, seppur solo per tre Paesi (non identificati) e in misura contenuta (1%) un calo dell’occupazione: alzare l’asticella del salario minimo avrebbe come diretta conseguenza l’aumento del costo del lavoro per le imprese le quali, per adeguarsi agli obblighi normativi e in assenza di interventi e ausili da parte dello Stato, sarebbero costrette a ridurre il proprio organico.
4. Conclusioni
In conclusione, si ritiene di poter affermare che se, da un lato, l’eventuale scelta politica del nostro Legislatore di attuare la Direttiva potrebbe effettivamente portare ad un miglioramento della qualità di vita per alcuni lavoratori, dall’altro, ne lascerebbe immutate le condizioni di una fetta consistente (formalmente solo gli autonomi, ma di fatto anche i part-time, somministrati e a chiamata). Inoltre, l’incremento della retribuzione oraria comporterebbe per i datori di lavoro un aumento dei costi che dovrebbe necessariamente trovare un bilanciamento in interventi legislativi destinati al finanziamento delle imprese e alla semplificazione del diritto del lavoro che, se in altri Paesi risulta essere un dogma, nel nostro ordinamento è, ad oggi, ancora un tabù.