Riflessioni sulla diseredazione testamentaria e, in particolare sull’ammissibilità della diseredazione di un legittimario

1. Nozione e contenuto della clausola di diseredazione

La diseredazione testamentaria è uno strumento giuridico con cui il de cuius esprime la volontà di escludere dalla propria successione uno o più soggetti ritenuti non meritevoli di ricevere parte dei beni da lui posseduti in vita.
In altre parole, il de cuius può esprimere, attraverso il testamento, valutazioni di carattere personale nei confronti di uno o più persone successibili al fine di estrometterli dalla partecipazione dell’asse ereditario.
Poiché il nostro ordinamento disciplina compiutamente la facoltà di regolamentare la destinazione post mortem del proprio patrimonio, mentre nulla dice in ordine alla possibilità di impedire la chiamata all’eredità di un successibile, si è posto il problema della validità o meno della clausola di diseredazione.
Punto di partenza è certamente la definizione di testamento contenuta nell’art. 587 c.c.
In particolare il primo comma stabilisce che “il testamento è l’atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o parte di esse” ed il secondo comma prosegue precisando che “le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano inserite in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma di testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale”.
Posto che la legge nulla dispone relativamente alla clausola di diseredazione, essa si considera come disposizione “atipica” e, proprio per tale suo profilo, fino ad oggi si è molto discusso sulla sua validità.

2. Una questione antica ma quanto mai attuale: orientamenti dottrinali ed evoluzione giurisprudenziale

La giurisprudenza italiana è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla questione dell’ammissibilità o meno della clausola diseredativa, ma le sentenze, sia di merito che di legittimità, hanno fornito nel tempo soluzioni di diverso orientamento e di differente impianto logico.
La dottrina più tradizionale, di fatto contraria all’ammissibilità di una clausola diseredativa, si basa sull’assunto che le disposizioni testamentarie debbano avere ad oggetto una positiva attribuzione e non una finalità meramente negativa volta ad escludere dalla successione determinati soggetti.
Secondo tale visione la clausola diseredativa non sarebbe valida in quanto da un lato carente del carattere attributivo e dall’altro caratterizzata da atipicità legale1.
Il primo importante precedente giurisprudenziale sull’argomento in questione è costituito da una pronuncia della Corte di Cassazione la quale, nella sentenza n. 1458 del 1967 ha affermato il seguente principio di diritto:”[…] Ai sensi dell’art. 587 c.c., il testatore può validamente escludere dall’eredità, in modo implicito o esplicito, un erede legittimo, purchè non legittimario, a condizione, però, che la scheda testamentaria contenga anche disposizioni positive e cioè rivolte ad attribuire beni ereditari ad altri soggetti, nelle forme dell’istituzione di erede o di legato. È quindi nullo il testamento con il quale, senza altre disposizioni, si escluda il detto erede, diseredandolo […]”.
Gli orientamenti più recenti criticano fortemente questa visione estremamente restrittiva e troppo ancorata al dettato letterale dell’art. 587 c.c., ritenendo che anche la diseredazione potrebbe considerarsi quale disposizione idonea ad assolvere la funzione tipica del testamento e cioè disporre delle sostanze appartenenti al de cuius per il tempo in cui questi avrà cessato di vivere.
Difatti il riconoscimento dell’autonomia testamentaria porta a ritenere che l’atto di ultima volontà possa contenere sia disposizioni a carattere attributivo/patrimoniale, sia disposizioni carenti di tale carattere2.
Peraltro, se da un lato la clausola di diseredazione non è espressamente disciplinata da alcuna norma del nostro ordinamento, dall’altro non esiste alcuna norma che la vieti espressamente.
Nel tempo si sono susseguite numerose pronunce, ma di certo la più rilevante in materia è la sentenza n. 8352/2012 della Sezione II della Corte di Cassazione in virtù della quale si ritiene alquanto contraddittorio il punto di approdo delle precedenti sentenze che da un lato sanciscono la validità della clausola di diseredazione, ma, dall’altro condizionano tale validità, seppur in modo indiretto o implicito, all’esistenza di una volontà del testatore di attribuire le proprie sostanze ad un determinato beneficiario.
Il nuovo indirizzo prospettato dalla Corte si basa su una lettura degli artt. 587 e 588 c.c. differente rispetto alle pronunce precedenti. La prima delle predette norme, definendo il testamento come atto di disposizione delle proprie sostanze, sottolinea sì la necessità che la disposizione testamentaria abbia contenuto patrimoniale, ma non presuppone che lo stesso, per essere tale, debba necessariamente avere una funzione attributiva.
In altre parole non si vede perché si debba negare la validità di una disposizione con la quale il testatore esprima la volontà di escludere un soggetto mediante una disposizione negativa dei propri beni. Una tale esclusione non equivale ad assenza di manifestazione di volontà, cioè ad un “non disporre”, ma configura una semmai una manifestazione di volontà che ha pur sempre un contenuto, ancorché negativo.

3. Ammissibilità della diseredazione di un legittimario

Va segnalato che la sentenza della Cassazione del 2012 non si occupa espressamente della diseredazione dei legittimari, lasciando lo scenario aperto a successivi interventi legislativi.
Proprio in virtù del fatto che non vi è concordanza di opinioni relativamente alla natura delle norme relative alla successione necessaria, in materia di diseredazione dei legittimari non esiste una soluzione univoca.
Occorre evidenziare che, secondo la dottrina tradizionale e ancora oggi prevalente, la diseredazione è ammissibile, solo in quanto significhi esclusione dalla successione legittima di parenti che non siano legittimari.
La diseredazione del legittimario sarebbe nulla per due ragioni di diritto: in primo luogo ex art. 457, co.3, c.c., secondo cui le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari; e, in secondo luogo, ex art. 549 c.c., stante il divieto per il testatore di imporre pesi e condizioni sulla quota di legittima.
A propendere, invece, per l’ammissibilità della diseredazione del legittimario è la più moderna dottrina civilistica che riconosce al legittimario diseredato uno strumento di tutela: l’azione di riduzione.
Al riguardo si evidenzia come nel nostro ordinamento, l’unica norma attraverso cui si intravede un’apertura favorevole alla diseredazione di un legittimario è l’art. 448 bis c.c., introdotto per effetto della L. n. 219/2012, secondo il quale “il figlio, anche adottivo, o, in sua mancanza, i discendenti prossimi possano escludere dalla successione il genitore nei confronti del quale sia stata dichiarata la decadenza dalla responsabilità genitoriale per fatti diversi da quelli, di cui all’art. 463 c.c., rilevanti ai fini dell’indegnità a succedere”.
L’ammissibilità o meno della diseredazione dei soggetti legittimari sembrerebbe strettamente connessa alla scelta della successione necessaria degli stretti congiunti, propria dei Paesi di civil law, la quale trova la propria giustificazione nell’esigenza di “tutelare la solidarietà familiare” e nel “dovere morale e sociale del defunto di assicurare ai suoi stretti congiunti il mantenimento e la necessaria successione almeno di una buona parte dei suoi beni”. Negli stati di common law, invece, in conseguenza del riconoscimento di una ben più ampia libertà testamentaria, è ammessa la diseredazione anche dei soggetti legittimari3.

4. Riconoscimento di un diritto alla diseredazione

Alla luce delle più recenti correnti dottrinali, nonché della posizione di apertura della Suprema Corte, si auspica, almeno per il futuro, un’apertura del sistema normativo volta a riconoscere maggior valore al profilo della libertà testamentaria, sia essa non-attributiva, non prevista nomitatim dall’ordinamento, o caratterizzante l’esclusivo contenuto del testamento, riconoscendo all’autonomia del soggetto la facoltà di “disporre”, come meglio crede, dei propri interessi.