1. Introduzione
Il vocabolo “neuroscienza” inizia ad essere impiegato negli anni Sessanta del Novecento per circoscrivere un particolare settore di studi eterogenei riguardanti il sistema nervoso cerebrale ed il suo legame con le espressioni comportamentali degli esseri viventi.
In effetti, essa si pone come scopo “l’analisi e la comprensione ad ogni livello (molecolare, genetico, biochimico, neurofisiologico) del funzionamento del sistema nervoso centrale (cervello) e periferico.”1
Invero, con la nascita delle neuroscienze, si verifica l’abdicazione all’idea dualistica: mente e cervello si considerano parte di una struttura unitaria. La mente s’identifica in un processo scaturente dall’attività cerebrale2 e l’obbligatoria conseguenza di questo postulato consiste nel fatto che una lesione al cervello si riverbera sui suoi processi, dunque, sulla mente ed anche sul comportamento del soggetto.
Le neuroscienze, quindi, hanno l’attitudine ad individuare disturbi mentali attraverso lo studio della struttura cerebrale del soggetto d’interesse e, nello specifico, per mezzo di esami neuro-scientifici.
2. Ogni comportamento umano è causalmente pre-determinato?
Lo sviluppo notevole negli ultimi anni (prima negli USA poi in Italia) delle neuroscienze ed il loro contributo nel mondo giuridico sono un tema fortemente sentito a livello internazionale.
Una delle sue branche è costituita dalle neuroscienze forensi, la quale ha ad oggetto lo studio di dati scientifici rilevanti nella valutazione giudiziaria.
Secondo alcuni studiosi3, “le neuroscienze sarebbero ormai prossime a fornire la definitiva dimostrazione empirica che ogni comportamento umano è solo l’esito meccanicistico di un processo cerebrale: non esisterebbe, insomma, una volontà libera, consapevole, ma solo una serie di connessioni neuronali governate dalle leggi causali della fisica.”
Rebus sic stantibus segue l’interrogativo: se ogni comportamento umano è causalmente pre-determinato, “è forse giunta l’ora di congedarsi da alcune categorie basilari del diritto penale?”4 C’è chi propone una radicale rifondazione del diritto penale ma questa attualmente non è auspicabile.
Le attuali acquisizioni neuroscientifiche non comportano, almeno per ora, né la necessità, né l’opportunità di modificare i capisaldi del diritto penale, ma non si esclude la possibilità di dialogo e di collaborazione tra neuroscienze, da una parte, e diritto e processo penale, dall’altra.
I classici ambiti d’impiego di questa disciplina consistono nella verifica della presenza di eventuali vizi di mente, ergo dell’imputabilità5 (e determinazione in concreto della pena6 in base alla capacità d’intendere e volere dell’imputato) ed accertamento dell’attendibilità del testimone.
3. La memory detection
Le neuroscienze forniscono sia tecniche finalizzate a valutare la veridicità della risposta del soggetto, ossia la cosiddetta “rilevazione di bugie” (lie detection), sia tecniche finalizzate a identificare la presenza nell’interrogato di “tracce di memoria” (memory detection). Con tracce di memoria s’intende “segni comportamentali, neurologici, fisiologici anche non sottoposti alla consapevolezza del soggetto, che possono essere considerati come impronte di esperienza vissuta”.7
La possibilità di discernere tra “menzogna e verità è sempre stata un’aspirazione del diritto”.8 Questa constatazione è suffragata dagli innumerevoli sistemi architettati a tal fine.
3.1. Il poligrafo
Il poligrafo9 rappresenta la più famosa ed antica delle “macchine della verità” (sebbene non rientri nel settore della neuroscienza in senso stretto, poiché quest’ultima rileva la menzogna dal luogo in cui essa ha origine cioè l’attività cerebrale). Esso rileva sudorazione, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, e molteplici altri fattori umani, i quali si accompagnano eventualmente alle risposte fornite dal soggetto interrogato. Il postulato di tale tecnica consiste nella diversità di segnali scaturenti da risposte menzognere piuttosto che veritiere. Posto che l’impiego del poligrafo sia vietato dagli artt. 64, 188 e 189 c.p.p. predisposti a tutela della libertà morale del dichiarante, è utile sottolineare che vi siano individui abili a mentire senza batter ciglio e senza alcuna risposta periferica misurabile; per contro, vi sono individui che, per il sol fatto di essere sottoposti all’indagine poligrafica e all’interrogatorio, hanno risposte emotive completamente indipendenti dal fatto che stiano dicendo la verità o meno.
3.2. La “fMRI”
Con la medesima logica è impiegata la risonanza magnetica funzionale (fMRI)10: tramite questa tecnica, più sofisticata, sono comparate le aree cerebrali che risultano maggiormente attive nelle singole risposte.
“Quando mentiamo dobbiamo inibire la risposta veritiera e fabbricare una risposta fasulla che dobbiamo ripetere fedelmente ogni volta che ci venga posta la stessa domanda. Da un punto di vista cognitivo tutto questo comporta uno “sforzo mentale” maggiore, che chiama in causa i meccanismi dell’attenzione e della memoria come pure quelli della pianificazione, del pensiero astratto e del controllo”.11
Le più recenti tecnologie di brain imaging consentono di visualizzare l’attività cerebrale nel suo compiersi e si evince, tramite queste, che solo in caso di menzogna desiderata “si accendono” in modo rilevante alcune zone cerebrali.
3.3. Guilty knowledge test
Il Guilty Knowledge Test (c.d. “test di conoscenza colpevole”) è un metodo di memory detection tramite cui alla persona scenario sono rivolte domande, in parte pertinenti al reato e in parte irrilevanti. Un soggetto non colpevole non è in grado di distinguere le domande rilevanti da quelle irrilevanti. Esclusivamente il soggetto colpevole manifesta delle variazioni fisiologiche di fronte a domande o immagini attinenti al crimine.12 Il gap consiste nella probabilità che anche una persona del tutto estranea al fatto sia a conoscenza di elementi attinenti al reato, grazie alla diffusione di notizie posta in essere dai mezzi d’informazione.
3.4. Brain finger printing
Il Brain Finger printing (c.d. “impronta digitale del cervello”) possiede l’attitudine a far emergere una traccia di memoria grazie all’uso di un’onda: la P300, la quale consente, grazie alla dislocazione di elettrodi sul cranio dell’esaminato ed un apparecchio per elettroencefalogramma, di misurare al millesimo di secondo i picchi dell’attività elettrica nel cervello, quando questo reagisce a qualcosa “di familiare”. L’ampiezza dell’onda è direttamente proporzionale alla vicinanza con cui il cervello percepisce l’informazione. Anche questa tecnica presenta dei gaps: la familiarità con un certo fatto non necessariamente inerisce al reato, ma può derivare da molteplici ed indiscusse cause!
4. Autobiografical-iat
Collocabile tra la lie detection e la memory detection è l’autobiografical-IAT. Questa tecnica consiste in una modificazione innovativa dell’Implicit Association Test, “strumento di misura indiretta che, in base alla latenza delle risposte, stabilisce la forza dell’associazione tra concetti”13; dalla rapidità della risposta emerge l’esistenza dell’informazione nella memoria del soggetto. Esso si fonda su un fenomeno relativo all’organizzazione del sistema nervoso: l’effetto compatibilità. In virtù di ciò, quando due concetti sono associati nella mente del soggetto e condividono la medesima risposta motoria: i tempi di reazione si presentano molto rapidi, diversamente, quando due concetti non associati condividono la medesima risposta motoria: i tempi di reazione si presentano notevolmente più lenti.
Per esempio, lo IAT è stato utilizzato per smascherare la sussistenza dello stereotipo razziale anche in soggetti che si autodefiniscono privi dello stesso. È emersa una significativa velocità di risposta nell’associare i termini “buono” e “uomo bianco” rispetto a “buono” e “uomo di colore”.
Nell’autobiographical-IAT14 piuttosto che indagare il livello di associazione tra concetti, ossia l’associazione a livello di memoria semantica, si verifica l’esistenza di una traccia della memoria autobiografica, ossia l’associazione a livello di memoria episodica, facendo sì che la tecnica sia idonea ad implicazioni investigativo-forensi. Invero, al soggetto sottoposto alla prova si chiede di classificare come “vero” o “falso” frasi ora riferite all’accusa, ora riferite alla difesa. Le suddette asserzioni riportano l’evento così come il soggetto dichiara di rimembrarle ed un evento descritto come estraneo al suo vissuto autobiografico. “Il risultato finale è un indice numerico (l’indice D-IAT), ricavato mediante procedura algoritmica, che misura la differenza tra tempi di reazione del soggetto, tenendo anche in considerazione gli errori commessi dallo stesso”.15
Con la summenzionata tecnica non si palesano le problematiche riscontrate con il GKT ed il Brain Fingerprinting, sicché pare applicabile anche a casi in cui v’è stata una diffusione, tramite i mass media, di notizie interessanti il reato.
5. “Da uomo ad oggetto”
Siffatte tecniche neuro-scientifiche si palesano tendenzialmente utili nell’indagare l’affidabilità dei soggetti. Questi ultimi possono mentire intenzionalmente, ma, come ampiamente esposto in precedenza16, con maggiore frequenza accade che siano mendaci inconsapevolmente, a causa di ricordi confusi sul fatto.
Nel caso dell’a-IAT, sebbene sia riportata una percentuale di successo pari al 92%, non è improbabile che il soggetto conservi in memoria un falso ricordo che determini una velocità di risposta pari o superiore ad un ricordo autentico.
Non risulta neppure trascurabile il profilo relativo alla libertà morale del dichiarante (che si configura nella indisponibile, piena e totale “facoltà della persona fonte di prova di determinarsi liberamente rispetto agli stimoli”17): l’a-IAT lede la libertà di autodeterminarsi del dichiarante, poiché “si attua un controllo del comportamento che tende a cercare risposte al di fuori dell’auto dominio del soggetto”.18
In un certo senso, le tecniche di memory detection tendono a “degradare l’uomo ad oggetto”19 in quanto il corpo, nel suo tessuto neuronale, si fa “segno” (“traccia”) di un accadimento storico. “Il pattern neuronale potrebbe divenire prova (nel senso di un fatto rappresentativo di un altro fatto) di un fatto storico.”20
È opportuno, quindi, porsi una domanda retorica: è lecito degradare un soggetto processuale ad oggetto?
Secondo la prospettiva di alcuni studiosi in ambito internazionale, ponendo in rilievo la diversità dei ruoli processuali, appare fuori luogo che un teste, esterno alla vicenda, sia trasformato, ai fini della pretesa punitiva dello Stato, in “oggetto” (ossia sottoposto ad un’indagine di memory detection)21; al contrario, la “degradazione ad oggetto” può apparire meno disdicevole22 se da questa derivi la sollevazione dell’imputato dalla responsabilità penale. Sicché, “Meglio degradato che privato della libertà”.23
6. Conclusioni
A tal riguardo, il codice di procedura penale italiano non lascia spazio a dubbi interpretativi, la tutela della libertà morale del soggetto, come il rispetto dei diritti fondamentali della persona, è imprescindibile nel processo penale ed, altresì, l’espressione massima del superamento del modello inquisitorio.
Ai sensi e per gli effetti dell’art. 188 c.p.p.: “Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti”.
Tale tutela si applica nei vari atti procedurali previsti, poiché, in ogni fase, la persona deve essere lasciata libera di scegliere.